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L’ANSIOSA METAFISICA DI CACCIARI

23 dicembre 2023

(recensione a Massimo Cacciari, Metafisica concreta, Adelphi 2023) di Nicola Licciardello

Se, come dichiara il risvolto di copertina, “quest’opera conclude l’esposizione del suo sistema filosofico, avviata con Dell’inizio (1990), proseguita con Della cosa ultima (2004) e Labirinto filosofico (2014)”, non abbiamo più chances di comprenderlo meglio. Userò lo spazio concessomi solo per evocare certe costanti del filosofo-scrittore Cacciari e le novità relative di questo libro. Queste ultime forse quasi più interessanti, per cui corro il rischio di iniziare da qui.

Il titolo: Agli spartiacque del pensiero. Lineamenti di una metafisica concreta doveva intitolarsi l’opera complessiva di Pavel Florenskij: di cui Cacciari qui cita la prima edizione italiana (1974) de La colonna e il fondamento della verità a cura di Elémire Zolla. Riprende Florenskij nel finale del libro: luminoso esempio di Philosophia perennis “come un sì alla vita”. Di Zolla cita anche Lo Stupore infantile, a proposito del simbolo: “Il mito è l’esegesi del simbolo, la sua dilatazione narrativa, che ha però una funzione speculativa”. Se anche non elaborate queste sono novità, Cacciari aveva sempre evitato di poggiare il suo discorso filosofico su un esoterismo trans-culturale (cioè l’indagine di un archetipo, esempio la Madre, la Guerra, etc. in differenti culture). Ancora più rilevanti sono gli accostamenti al sanscrito delle Upaniśad: di Giorgio Colli cita l’identificazione fra il greco “essere” tò ón e il brahman (p.45), pur distanziandosene – ma in prima persona enuncia poi una serie di radici comuni, come sat e satya, omologia sanscrita di Essere e Verità, o affinità come sukha, “piacere” e il latino succus (p.297-300), oppure āyus “salute” ed eternità (greco aiei, aien, aion, p.323). Ancor più pregnante una citazione diretta da quella che definisce tout court “sophia upaniśadica”: dal finale del quarto adhyāya della Bṛhadāraṇyaka, la più antica (coeva forse dell’Iliade): “In verità questo grande e increato ātman, senza vecchiaia o morte, senza paura, è il brahman. In verità il brahman è felicità e diventa il brahman stesso colui che così conosce” (p.305). Questa “sophia” transculturale (greco-sanscrita) è direi innovativa per il nostro.

Frequenti ma meno nuovi in Cacciari sono i rimandi alla scienza contemporanea. Questi percorrono tutto il libro, ma addensandosi in due occasioni: prima, laddove soprattutto la fisica odierna serva a decostruire l’oggettività del mondo e scioglierne ogni approccio riduzionista (quale il meccanicismo, o l’idea che un sistema è la somma delle sue parti, etc), quindi privilegiando invece la complessità, il bios, l’interazione olistica. Fino a mettere fra parentesi il fatto morte, sostituendolo con quello di osservabile/non osservabile (p.319) nel cronotopo (o spazio-tempo), tipico della fisica quantistica. Vi è ad esempio una pagina bellissima, dove affronta il problema della simultaneità e del nostro sguardo, che vede il firmamento pieno di stelle in verità già estinte, ma le vede anche nascere… “la stella (ora finita) io la vedo ancora viva, passato-presente, passato che ora non passa, questa è l’anamnesi platonica…sguardo che vede nascere un’altra stella” (p.321). La seconda occasione, diciamo così, per cui nel discorso cacciariano la scienza contemporanea è essenziale, è che la sua articolazione specialistica deve necessariamente far segno all’istanza della filosofia, che sola può garantirne il mirare all’Impossibile. Sul concetto di Impossibile gravita l’intero libro, e vi si tornerà, fin d’ora segnalando che è proprio questo a trasmetterne un’ansietà complessiva. Valga intanto riportare il quasi accorato appello finale ai filosofi, che forse dovranno abbandonare persino la profondità di Dante per “assumere una responsabilità ancora più difficile, quella di ‘salvare’ la sostanzialità dell’essente nelle diverse forme di scienza, salvarla fino all’estremo, all’éschaton (ultimo) del possibile, e ascoltandola ricercare il senso dei diversi saperi, mostrare la possibilità che il logos di ciascuno possa essere comunicazione, philía del comunicare, co-scienza che divino è il colloquio tra loro e di loro col mondo, philo-sophía e phil-agathía”.

Senza dubbio è altrettale la preoccupazione di percorrere lo spazio paradossalmente ‘proibito’ al filosofo in politica. Un nodo insolubile sembra legare il filosofo alla politica della sua città: nellacatabasi (discesa) alla caverna platonica egli è mosso da com-passione per i suoi (ex)compagni ancora incatenati allo schermo televisivo, ma nell’anabasi (risalita) egli è impedito dai suoi compagni, preso per matto e minacciato di morte: “non può che tendere al governo della polis, però mai averlo e nemmeno desiderarlo, perciò sarà sempre in lotta con la sua arché” (p.21 nota). A questo destino che lo accomuna ai prigionieri non sfuggirà infatti nemmeno Socrate, l’unico uomo átopos, senza luogo, comune e libero, però soggetto alle leggi della sua città. “In questa polis vivo e ne riconosco le leggi, ma a un tempo le contra-dico, con-fliggo con esse, non riconoscendone fisso il loro confine” (p.414). Con pena, non solo perché tali leggi verranno comunque superate, ma perché il Politico ‘metafisico’ è oltre l’ethos osservabile, abbracciato dall’Inosservabile o Impossibile. Nonostante lo stesso Cacciari dichiari l’affinità di questo concetto con quello di Irrealizzabile di Agamben, rimane un’ipostasi ben precisa.

Non è casuale, innanzitutto, il riferimento dell’Impossibile alla Rivelazione cristiana. E cioè che l’Impossibile non è tale solo in quanto esito logico del “ogni cosa è possibile”, ma in quanto caso di Resurrezione. Se “per il credente stesso la resurrezione è impossibile”, si tratta di oltrepassare questo muro dell’Impossibile, analogo a quel muro di fiamma che Virgilio presenta a Dante nel XXVII del Purgatorio: “or vedi, figlio:/ tra Beatrice e te è questo muro”. L’angoscia del morire deve rovesciarsi nell’esultanza dell’Immortalità, nella Rivelazione che è possibile l’Impossibile: “Dio non vuole esser creduto, vuole che si creda nell’Impossibile, come nella libertà, anch’essa indimostrabile” (p.361). Ma prima della resurrezione (istantanea in Dante) l’Impossibile si manifesta nella decisione di morire per altri (anche Alcesti). E “morire per altri significa donarsi, per-donarsi senza aspettarsi nulla in cambio”. E’ a questo livello di amore incondizionato che Cacciari recupera non solo, ovviamente, Dostoevskij, ma anche lo Zarathustra di Nietzsche (contro Schopenhauer): solo nella traboccante autocoscienza del “Tu devi farti più povero, prima dona te stesso, o Zarathustra!” è davvero possibile annunciare l’Oltre-Uomo, ossia la “liberazione dalla catena di esser giudicati e puniti.”

In questo contesto ‘sacro’ la lezione di Severino quasi svanisce – certo, contro l’heideggeriano ‘essere per la morte’ vale l’eternità degli essenti di Severino, per il quale tutti diveniamo invisibili, ma non perciò annullati, solo orbitanti in altri spazi. Ma tutto questo perde di attualità, diciamo così, di fronte all’energia del possibile-Impossibile ora del tempo messianico. Benjamin infatti rimane il nume tutelare della filosofia della storia. E con lui, paradossalmente, si svuota interamente il Male: primo, perché la Rivoluzione è nell’Attimo a-cronico (quando si spara agli orologi, dice Benjamin); secondo, perché “il Principio della negazione non può non volersi negare, Satana scaccia Satana (p.374)…apocalisse ora, il Male si riflette alla sua fine”. Questo razionale ottimismo sembra proiettarsi beneficamente sull’attuale condizione planetaria, al punto che, riferisce Cacciari, è vero che nel Talmud c’era una sorta di superluce per cui l’uomo poteva vedere da un capo all’altro del mondo, ma col Diluvio si oscurò, “il Signore la tiene riposta per i giusti nel tempo avvenire”: potrebbe tornare ora questo tempo, o ci sono troppi katechon, freni alla Rivelazione ? Chissà.

Questo richiamo biblico apre una domanda sulla critica di Cacciari a Nietzsche riguardo al suo “Dio è morto”. “Ciò che l’uomo può uccidere – e lo ha fatto –, si affretta a dire il Nostro, sono soltanto le sue idee intorno a Dio, superstizioni, religioni e teologie. Né il Dio-Natura né il Dio nascosto, in quanto inosservabile, possono venire uccisi o negati. Intendere Dio come ‘ciò’ che contiene in sé i ‘valori’ della tradizione giudaico-cristiana e aspetti essenziali della paideía classica è un’operazione filologicamente discutibile e filosoficamente di inutile retroguardia” (p.285). Ecco però mi sembra che proprio tale è ancora il mainstream culturale dell’occidente, non escluso lo stesso Cacciari in questo libro.

Un ultimo, forte accento pervade molte pagine di Metafisica, riscattandone possibili contraddizioni o impostazioni superate – sulla Poesia e il linguaggio poetico, come intraducibile esempio di Impossibile che le Muse concedono. Per Esiodo “molte cose le Muse dicono ingannevoli o false, ma sanno anche, quando vogliono, alethéa gerýsasthai, annunciare cantando la verità, cantare l’essente nella sua disvelatezza.” E non per una mitica capricciosità, ma per l’intrinseca natura della poesia, essenzialmente analogica – e “analogica è la sola modalità del pensare filosofico che può avvicinarvisi” (p.394). Dunque “non possiamo astrarre il pensare dal legame con il páthos” (ivi), e persino la fede “avrà certo anch’essa fondamento biologico nella propria indistruttibilità.” Indistruttibile dunque è questo principio che tutti accomuna, nelle insospettabili parole di Kafka: “L’indistruttibile (Unzerstörbare) è uno. Ogni singolo uomo lo è, al tempo stesso è comune a tutti. Ecco l’origine dell’incomparabile, inscindibile unione che lega gli uomini”. La chiosa di Cacciari non può che ripetere: “ciò significa credere nell’Impossibile che il nostro esserci, l’inalienabile presenza di ogni essente, possa manifestarsi kath’hautó, essenzialmente, come Vita-Aión”.

La solidità della poesia dunque si rivela per Cacciari come una sintesi a priori fra il muto bios e laParola, “parola che sempre ci manca” e che “viene sempre dopo l’immagine”: perciò invece che iQuattro Quartetti di Eliot, complessa discussione sul Tempo, preferisce parlare dei Cantos di Pound,“sola grande opera contemporanea capace di dialogare con la Commedia” (406 nota). Ma non tanto perché (al di là delle intenzioni) possano dialogare con la Commedia1 preferisce i Cantos ai Quartetti,ma per una qualità intima della poetica poundiana, la povertà. Pound “ormai per scintille, per illuminazioni, per ritmi, si esprime per drafts, incapace di compiere l’Opus, e tuttavia nell’inesaustocombinarsi-confondersi di frammenti, citazioni, rovine, resiste, traducendo variamente l’idea delkalón, dell’Ordine, l’idea di reverence e di charity, di aidós e di caritas – resiste nella nostra attualepovertà Amor philía, e questo bisogna cercare di dire e di fare sentire, nella sua ferma opposizionealla avaritia” (pp.406-7 nota). Un filo rosso infatti sempre regge la poesia di Pound: il fascio dienergia dell’uomo Ezra, la sua generosità e dirittura morale, l’intento di giustizia che innerva il suo costante, dantesco giudicare i vivi e i morti. La sua è sempre l’evocazione di una comunità di poeti, un cosmopolitismo di quelli morti e di quelli vivi, da lui provvidamente soccorsi.
Quanto vicino in questo allo Stilnovo, come Dante, a Pound manca soltanto il registro aureo del Paradiso, e forse quella stessa incommensurabile chiarezza (übermässige Klarheit) che Robert Musil invoca nei “dialoghi sacri” tra Ulrich e la sorella Agathe nelle ultime pagine de L’uomo senza qualità, sempre citato da Cacciari. E quel silenzio, qui declinato come inizio e fine della coscienza umana, è “il senso concreto del Mistico che avvolge ogni parola e ne costituisce l’anima, ciò che le dà vita.” (386). Ma non può sfuggirgli nemmeno l’incredibile, libera creatività della parola parlante, per cui riporta quel “s’io m’intuassi come tu t’inmii” di Cunizza da Romano (PAR. IX, 81), quando evoca gli straripamenti dei fiumi veneti.
Non casuale, si diceva, è il riferirsi dell’Impossibile alla fede cristiana: “Per il credente, scrive infatti Cacciari, c’è l’infinita energia del perdono, Dio perdona anche l’imperdonabile. E in Dante “l’amore divino vince tutto, la stessa misura della propria giustizia, e quindi giunge a salvare tutti” (369). C’è soltanto l’inspiegabile silenzio sul Cristo, ma “le Donne (Maria, Lucia, Beatrice, Matelda e Lia) salvano, mostrando l’Impossibile del Paradiso”.

NICOLA LICCIARDELLO

1 Su questo rinvio al mio Dante tantrico e vedico, nel volume collettivo Sguardi su Dante da Oriente, a cura di Carlo Saccone, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2017; e Esoterismo fra avanguardia e globalizzazione: Pound Eliot Yeats in “Rivista di Studi Indoeuropei” IX (2019) – http://kharabat.altervista.org/index.html

2 Il canto LXXXI, scritto in Italia: “Ciò che sai amare è il tuo vero retaggio/ Ciò che sai amare non ti sarà strappato/…/ Deponi la tua vanità, non è l’uomo/ che ha fatto il coraggio, o l’ordine o la grazia; nel CXVI vi è una confessione e richiesta di perdono per non aver saputo scrivere quel paradiso terrestre che si era prefisso.

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