POESIASSOLUTA
RIPARTENDO DA ANTEREM
Il numero 92 (2016) di “Anterem”, la natura del lavoro poetico riapre la riflessione (occidentale) su un tema inesauribile. Provoca a intervenire non solo la ricchezza e varietà dei saggi che lo compongono, ma un loro carattere – degno di indagine. Il fatto, cioè, che quasi tutti sembrano avere una qualità di scrittura ‘più poetica’ di altri testi presenti come poesia. Questa ‘poeticità’ credo stia nella loro qualità metadiscorsiva, che alla (meta)sensibilità contemporanea li rende più pregnanti dei ‘meri’ testi poetici. Al di là di possibili esempi, gli enunciati poetici contemporanei infatti spesso si danno come in una superficie liscia, diciamo a due dimensioni, un lacerto mentale logico, senza nemmeno figure retoriche – incompiuto, e che come tale potrebbe acquistare un ‘senso poetico’ in quanto rinvìo ad altri testi, allo stesso modo indefiniti… non aventi in sé una valenza poetica tradizionale. Mentre ce l’hanno questi saggi, in quanto comunicano una visione del mondo, una forma di ordine superiore alla casistica, un’intensità concettuale ed ermeneutica, etc. Molti poi hanno pregevoli qualità formali. Si tratta di prosa poetica, di “pensiero poetante”, sempre inscritto nella classica ricerca occidentale del tò estì, del che cos’è – tentativi di definire l’Essenza della poesia tanto più destinati al fallimento quanto più scavano nel profondo indicibile. Eppure è proprio questa meta-poiesis a conferir loro una verticale multidimensionalità.
Segnalo in particolare due interventi.
Innanzitutto La poesia come ascolto. Ordinario di Teoria letteraria e Letterature comparate, l’autrice Carla Locatelli mette in scena dialoghi (o metaloghi, avrebbe forse detto Bateson), domande e risposte, fra Autori disparati quali un Gémino Abad e un Denis Levertov, che sembrano rifrangersi, moltiplicando il rimando della poesia alle “parole piene, quelle in cui scorre il sangue-inchiostro vitale”. Nessuna decostruzione, dunque, implicita in questo approccio, ma anzi il riconoscimento di una parola poetica forte, autopoietica, trans-culturale e insieme ‘povera’, cioè che ricrea paradigma ritrovandolo nel linguaggio comune. Così possono incrociarsi le meta-poetiche di Helene Cixous: “scrivere è un bene, lasciare che la lingua ci provi, come si prova una carezza, prendendo il tempo che ci vuole a una frase per farsi amare, perché si riverberi” – e di Antonia Pozzi: “Bontà / a cui beve il suo canto / il cuore / e di cantare non può più finire / perché sei la sorgente che rifà / il sorso bevuto / e il suo fondo / non si tocca mai”. Il ricorso a exempla di tale profondità, trasparenza e semplicità verbale mi sembra premi questo piccolo saggio di un’alta consapevolezza e piena umanità.
Il secondo è quello di Enrico Giannetto, professore di antropologia ed espistemologia della complessità: La natura della poesia ovvero la poesia della natura. Valenza antichissima, ricorrente e sempre in nuova forma espressa. Qui colpisce, almeno nel panorama italiano, la singolarità del riferimento a una Natura vista come nella fisica quantistica più recente – e insieme inscritta in una visione e compassione (trans)religiosa. In una (mia personale) summa: “la natura della poesia è la poesia della natura. Siamo parte di una poesia non-umana. Siamo frammenti di sogni di un poema originario esploso nel nascere, simboli spezzati, unità perduta di infiniti linguaggi divini, ormai babelicamente confusi… iniziano i desideri di altri soli e altre lune… estasi e disperazione… siamo ancora immersi nella luce primordiale della creazione… illuminati in questa maestosa meditazione cosmica in cui ci perdiamo, in un nirvana cosmico incoato in cui ci estinguiamo con tutti i nostri egoismi… Useremo ancora le nostre parole ? oppure con e oltre le nostre parole, partecipando della sofferenza e della felicità di ogni cosa, daremo vita alla verità dell’amore totale nella sua grandezza finale, to ekfanéstaton ?”.
Ecco un linguaggio adeguato all’oggetto – che è insieme soggetto: “una poesia non-umana”. Eresia per la filosofia della modernità occidentale, che considera “muti”, “senza mondo” anche gli animali. Ma non è stato sempre così – si pensi al Rinascimento, all’apertura di Bruno, Cusano, Campanella, al romanticismo inglese a partire Wordsworth, o ai poeti beat americani. Però non è più con la filosofia classica che deve vedersela il discorso meta-poetico, ma con la Scienza e la Tecnologia – di cui sono parte anche le ‘tecnosofie’ trasformative orientali: “con e oltre le nostre parole”, scrive Giannetto. Non occorre infatti aderire in toto all’idea di cultura come ‘antropotecnica’ (auto)immunitaria (Peter Sloterdijk) per convenire con lui almeno su un punto: la confluenza fra quest poetica e askesis. La ricerca della parola poetica è sempre un esercizio, nel migliore dei casi un’ascesi o addirittura un’apofatica mistica. Questo è vero in senso verticale, ma oggi anche in senso orizzontale, con la globalizzazione delle etno-poetiche e quindi delle forme di poesia. Si diffonde, ad esempio, il riferimento alla poesia haiku zen come luogo del paradosso poetico per eccellenza: quello in cui natura e arte sono inseparabili, perché vi si manifesta senza sforzo ciò che è costato un incalcolabile sforzo evolutivo da una parte e meditativo dall’altra. E questo è vero anche per tutte le tradizioni orientali, come yoga e tantra o altre gimnosofie e arti.
In questo senso è azzeccatissima la scelta di distici dal Viandante Cherubico di Angelo Silesio ospitati in questo numero di “Anterem”, perché spesso è facile trovarvi l’eco di espressioni tipiche della mistica universale. “L’imperturbabilità. Non so che sia ! per me è tutt’uno: luogo, non-luogo, eternità, tempo, notte, giorno, gioia e pena”: un elenco trasversale che giungerà al Siddharta di Hesse e allo Zarathustra di Nietzsche; “Cos’è l’eternità ? Non è né questo né quello, né attimo, né qualcosa, né nulla: è non so cosa”: il che si può comparare alla Catuṣkoṭi, la quadruplice logica negativa del buddhismo Madhyamika (Nagarjuna); “Un uomo che sa governare le sue forze e i sensi, può a buon diritto valersi del titolo di re”: da Socrate, agli Stoici al Raja Yoga; “Se porti la tua navicella sul mare della divinità, lieto sei se vi anneghi”: “naufragar m’è dolce in questo mare” di Leopardi; “Va, e diventa tu stesso la scrittura e l’essenza”: ancora lo Zarathustra di Nietzsche.
Il libro, come simbolo e come medium, non è più l’unico veicolo della poesia. Continuerà ad esserlo in parte, almeno su questa terra, perché non è stato inventato un altro oggetto-strumento unico per il contatto immediato con l’interiorità umana. Unico come unica la parola che trasmette. La parola che è, inizialmente, verbo e nome – Nome, presagio o contrazione di un ritmo: la Cosa stessa sub specie aeternitatis – das Unvergesslich, l’Indimenticabile, aggiunge Benjamin. Quest’evento iniziale-iniziatico la poesia del libro custodisce ancor oggi (quando lo fa). Ma il decadimento ‘quantico’ (a proposito) e la proliferazione tecno-mediatica spingono oggi la poesia sempre più indietro, verso un atto linguistico primario, il coinvolgimento dell’intero corpo, la sua espressione performativa: una meta-volontà di potenza. All’inizio è l’azione (intuì anche Goethe) – l’azione senza parola. Ora registrata, riprodotta, ma sempre irriproducibile. Qual è allora, oggi lo strumento di trasmissione e, prima ancora, il meta-discorso possibile di una poesia-performance dell’intero corpo umano? Cosa può, simbolicamente, ‘implicare’ l’infinita ri-creazione di “eventi” complessi, territorialmente capillari Festival della Parola e della Sapienza, mostre individuali e collettive che intrecciano le arti (teatro, musica, acrobazia, divertimento…) ? O, in modo ancor più radicale, perché si continua a cercare ciò che si è già trovato ? la risposta vola nel vento, cantava qualcuno – ognuno deve di nuovo studiarci, non per trovare la sua risposta definitiva, ma per poter, ogni volta, lasciare il Sé rispondere.
Nicola Licciardello
Agosto 2016
José Lezama Lima:
il “cubano universal” e la danza
di Origenes
Vita e Opere,
il Poeta,
il Narratore,
il “cubano universal”,
il barocco americano,
il Maestro,
la Danza di “Origenes”,
l’Eros del conocimiento,
hanno scritto di lui
LEZAMA-POESIA 176-2003
TRANSPOESIA-ITALIANISTICA 2008
JOUMANA HADDAD AL SUQ DI GENOVA 2010
ALL’ASCOLTO DEL CORPO PROFONDO
“Questo libro è corpo vivo – scrive Chiara De Luca presentandolo (Kolibris, Bologna 2011) – che di pagina in pagina si schiude, chiarisce e svela nella pace del foglio bianco, restando vibrante e vivo sul finale aperto dell’ ‘Io inverso’, del corpo in versi”. Ed è corpo vivo perché i suoi epigrammi (senza titolo) evocano flussi, anse e scarti di un movimento ‘curvilineo’ – quello di un neo-nato, o di un essere sul punto di nascere (come diceva Zambrano): “respirare con la pancia / farsi tutto fiato farsi pieni di vita /come fantolino neonato”. Il ‘metodo’ di Ghenzovich è ben definito, un cortocircuito di andata e ritorno – dalle più buie radici di sé al confine dell’universo, la pelle, e cioè il foglio bianco, dove il corpo in-segna e si ri-conosce senza zone di oscurità, in un dettato laconico e deciso: “Se moltiplichi cieli / e non ti neghi ma apri / parlando di quel poco / come questo gesto o il passo / l’erba sotto e il passero / che becchetta un respiro / più ampio d’ogni chiglia aguzza / del pensiero – più vivo adesso come / tutto quello che muove amore / e non muore”. Non è il corpo a parlare, ma un io attento in ascolto profondo – non banalmente delle emozioni femminili (come molta poesia contemporanea), ma di un originario e inafferrabile. In una costante ‘presenza mentale’ (dicono i buddhisti), lo scandaglio decostruisce “il sussulto d’ogni cellula / fino all’ultimo vivido strato”, rivelando “più di una fine un vedere diverso”, dove “tutto è come era ma più vicino”. Nella consapevole equivalenza fra micro- e macrocosmo (“minime galassie / indossare l’universo”) che dissolve ogni angoscia o dolore, nasce invece “il canto per la musica del corpo” che, come in Castaneda, “dimentica il nome / diviene albero e cielo”. Oltre “il corpo che mi abita” (direbbe Jaime Saenz), nel rischio estremo di sbocciare fino al cielo, il corpo scopre la sua natura generante, autoliberante, è lui a dare alla luce. Non ri-produzione, ma creazione: dall’ “esatto denso e fluido” emergono infatti parole, portate da voci immemorabili (“dal fondale un nome / la sua impronta – una voce / ponte tra me e te e confine / lasciala passare falla entrare – dentro”). L’esito più fortunato della quest è la scoperta che la poesia nasce dal corpo, dal suo “mare dentro”. Sono increspature della sua superficie anche le domande “se fosse possibilità invece perché peso / apparente concausa d’un niente”, e soprattutto “Cosa tocca la mano che tiene la penna / e la lascia cadere ?”. Dove si mostra l’intangibilità della ‘singolarità comune’ (Agamben), della nuda vita esposta al massimo pericolo. A questo livello di meditazione poetica non giovano le tentazioni ‘performative’ di Ghenzovich in alcune sue letture.
settembre 2011
Un evento unico di poesia si è svolto in apertura del IV Festival “VERSO IL SOLSTIZIO D’ESTATE”, organizzato dall’Associazione Il ponte del Sale (Rovigo) il 29 maggio 2010 a Lendinara, Teatro Ballarin, dove la serata è proseguita con il concerto del pianista BOJAN Z. e la prestigiosa tromba PAOLO FRESU. Il video qui presenta le prime 6 strofe del poema Lamento per Belgrado di Milos Crnjanski (Csongrad 1893-Beograd 1977), lette dal traduttore (e poeta) MASSIMO RIZZANTE e da MARCO MUNARO (poeta che cura il Festival): il contrappunto fra le due voci risponde perfettamente a quello del testo serbo, in cui un registro modernista espressionista si alterna costantemente all’altro, di lauda lirica – come è ben illustrato nell’introduzione del libro (di Massimo Rizzante con il “suggeritore di stelle” Bozidar Stanišiç) per le edizioni Il Ponte del Sale.
Il Festival Internazionale PALABRA EN EL MUNDO, alla sua quarta edizione, svolge simultaneamente Letture di Poesia in 500 località diverse. Da Venezia, 21 maggio 2010, in collaborazione con Italia-Cuba, a cura di Silvia Favaretto e Anna Lombardo, si propone qui il secondo intervento ‘rivoluzionario’ di JACK HIRSCHMAN, che ha partecipato assieme alla moglie AGNETA FALK e a molti poeti di lingua spagnola:
Rosaria Lo Russo e l’Eros medievale
AMORE DEI CONTRARI
La più grande, la più lenta
luna da 29 anni
– e all’aurora un usignolo
disse un piccolo verso
di gioia all’aria nuova
invece tutto era pronto
scritto nel loro cielo
l’Ordine e il sacrificio
l’arcobaleno dei metalli
giù nel sangue dei ribelli
– i figli, i giovani sogni
non può accoglierli l’antica
madre, patrigna europa
la sua Storia è finita
e infinita la sua nostalgia
di un antichissimo sole
che più non canta le nozze
con l’aurora..
ah, senza sapere
senza potere, ripete
allo scoccare del secolo
il fuoco del Logos !
non è il mare, non è il legame
degli elementi e il suo spezzarsi
non è l’eros dei contrari, l’amore
la forza più forte ?
quanto vuoi far durare
la tua agonia, e la nostra ?
quanti eoni credi
di poter generare, signora
dai molti mariti ?
ogni volta non sappiamo
ogni volta “la risposta vola nel vento”
ogni volta non sappiamo se sarà
davvero l’ultima
– il mito della Fine
o un nuovo inizio
e stiamo, col cuore sospeso
attenti al verso
di un usignolo all’Aurora
nicola licciardello
21 marzo 2011