IL LAVORO NELL’EPOCA DELLA SUA (IR)RIPRODUCIBILITA’ INFORMATICA
29 ottobre 2012
IL LAVORO NELL’EPOCA DELLA SUA (IR)RIPRODUCIBILITA’ INFORMATICA
di Nicola Licciardello
Premessa obbligata nell’affrontare qualsiasi argomento è oggi la Grande Crisi. Sulla cui origine – speculazioni finanziarie e deregulation del mercato globale – non mentono nemmeno gli organismi internazionali (Fed, Bce, Fmi) che l’hanno assecondata e promossa. L’angoscia sociale per l’immenso impoverimento, i licenziamenti di massa nella decrescita di fatto, è alimentata anche dall’incertezza con cui la tecnocrazia stessa propone le “terapie” per uscirne: rigore / crescita / svalutazione / consolidamento del debito/ commissariamento ‘imperiale’ / economie a 2 velocità etc.
Sacrosante sono le battaglie, in piazza o in fabbrica, spontanee, organizzate, sindacali, per mantenere un’ “occupazione” – anzi un luogo e una dignità del lavoro – ma intanto e comunque, un reddito. A un reddito garantito di cittadinanza sono dirette proposte quasi unitarie della sinistra e/o referendum. Ma l’agitazione ideologica, da parte della folta diaspora di sinistra, per la presa del potere, dello Stato come centro, perpetua un irrazionale autoinganno (e inganno di chi ancora vi si sente “rappresentato”), perché, al di là delle ipocrite crociate anticorruzione, una realpolitik di sinistra ammette che il governo centrale sarà sempre compromesso con “poteri forti” trans-nazionali (essenzialmente bellici). L’unico risultato è allora quello di enfatizzare la frustrazione e la sua simultanea scarica nelle grandi manifestazioni, in Italia, di un mattino (o un pomeriggio) – cioè esattamente la “narrazione” che i grandi network televisivi ripropongono ogni dieci minuti, come eterno ritorno di una lotta di Sisifo. Soluzioni concrete possono venire solo dalle periferie, da un pensiero di decentramento eda pratiche di riterritorializzazione.
Perché, al tempo stesso, si percepisce che davvero siamo entrati irreversibilmente nel “grande freddo” di un’era post-industriale. E quindi da più parti s’invoca una riflessione più ampia e profonda sul futuro del lavoro in quest’epoca, sulle prospettive per i giovani, sul valore non solo economico ma politico, e prim’ancora culturale, antropologico del lavoro. Una messa in discussione radicale, che includa il riconoscimento della sua attuale inutilità anzi nocività. Con la provocazione “irriproducibilità informatica” voglio solo confermare un’ovvietà: che il mondo 2, quello del web, non sussiste senza i quanta di lavoro manuale necessari alla riproduzione della vita (inclusa la fabbricazione degli stessi computer). Il mondo 2 è una dimensione, un momento del mondo a più dimensioni, il quale a sua volta è irreversibilmente permeato, informatizzato dai software del mondo 2.
Un aspetto della Grande Crisi è la progressiva estinzione delle grandi narrazioni pubbliche, intese come miti condivisi, propulsivi di un modello di sviluppo: la crisi della stampa e presto delle TV “generaliste” mostra la fine del pubblico, come chiave di volta del politico e come agenzia educativa sociale: dall’individualismo e dalla privatizzazione non si torna indietro alle “masse analfabete” guidate da “intellettuali” o politici di professione – le masse di un tempo, depositarie di saperi artigianali e/o collettivi, erano comunque più colte della media che i singoli io oggi formano come “moltitudine”. La piazza del paese, bene comune per lo scambio umano, è sostituita dai “social network” alla facebook o da altri network tematici, settoriali, territoriali.
Che valore ha il lavoro in questo contesto? Quali virtù e/o esercizi (askesis, ricorda Sloterdijk [1]) occorrono per un lavoro necessario ad abitare la terra in modo equilibrato? (ci chiedevamo nell’intervento precedente). In che modo possiamo usare la storia pragmatista-idealista dell’ artigiano ricostruita da Richard Sennett [2] ? Dalle botteghe orafe medievali, passando per i violini Stradivari – la cui competenza non poté esser trasmessa perché fondata sul sapere tacito, sul contatto fisico fra Maestro e apprendisti – fino all’Illuminismo, fondato sulla capacità di immaginare ed eseguire lavori: Diderot e l’Encyclopedie, con le sue illustrazioni del vecchio e del nuovo modo di produrre e gli operai sereni, in simpatia; il Cittadino-Faber di Jefferson, che in quanto faber s’intende anche di politica. Mentre dall’ Educazione estetica di Schiller fino a John Ruskin e Adolf Loos (contrapposto al tetro Ludwig Wittgenstein, che progetta in modo rigido una sola casa), il lavoro si coniuga con la libertà del gioco. Sforzo, pazienza, continuo esercizio di mano-cervello, scomposizione e ricomposizione (Ruskin: “siamo interessati solo alle cose che possiamo modificare”), capacità di “afferrare ma anche di mollare la presa” (già nel colpo di martello), coscienza (del) materiale, progetto di qualità (“fatto ad arte”), “aggiustare ed esplorare”: il loro ritmo affina l’anticipazione e la capacità di seguire “la linea della minor resistenza”, ed è così fonte di piacere ed autostima. Il lavorare ai margini (pareti, frontiere, scrittura e narrazioni ellittiche) rende primario il valore d’uso del manufatto rispetto al valore di scambio monetario. Il valore sociale del lavoro risiede nelle “capacità che il corpo possiede di conformare oggetti fisici, le medesime capacità a cui attingiamo nelle relazioni sociali”. Sennett ricorda la trasformazione e ‘improvvisazione’ con cui gli etnici usano gli scalini delle case di Lower East Side a Manhattan, come abitazioni-esposizioni, e le loro differenze. “Misto di artista e operaio (dal latino artificium), l’artigiano di Sennett s’incarna in una serie di figure, dall’intagliatore di pietre al mastro liutaio, dal moderno editore indipendente allo stampatore d’arte, dal carpentiere anonimo al lavoro nelle grandi cattedrali gotiche fino agli infermieri e ausiliari di sala negli ospedali inglesi, ai ricercatori scientifici, ai programmatori di Linux”. (Marco Dotti).
In tutti questi aspetti il lavoro artigiano è frutto di un sapere collettivo, per la cui formazione è decisivo proprio lo scambio umano in ogni settore di ricerca, ancora oggi.
Team, équipe, Comune. A Sennett non sfugge il problematico, a priori insolubile legame fra “competenza del singolo” e orizzonte della moltitudine (anche nell’open source), ovvero fra gerarchia e apertura. Cita la Nokya, dove si decise per una politica di brain storming aperto, che risultò vincente sull’ambiente chiuso di Motorola. Ma ce n’è anche per gli imprenditori: “dovrebbero riqualificare gli artigiani, per costruire sequenze di abilità tecniche”. Ora è proprio questa l’ipotesi da verificare, con inchieste documentarie sul lavoro dell’operaio “specializzato” oggi, nella diversità delle produzioni e della loro grandezza. Uno dei meriti del “pensiero operaio” degli anni 60 e 70 fu quello di censire la “composizione di classe”, il lavoro del singolo e quello di squadra, le modalità e l’intensità dello sfruttamento – relativo al grado di “invenzione operaia” (tecnica) per risparmiare tempo e fatica nei diversi segmenti produttivi. Tutta questa informazione oggi è assente: quanto per un attimo s’intravvede nei Tg sull’operaio Fiat che avvita un pannello, mentre mostruose braccia automatiche si piegano a saldare una scocca, non basta a capire il suo ritmo, né i momenti di lavoro di squadra, se e come esiste, e quindi come potrebbe trasformarsi. E’ aggiacciante per esempio l’assoluto isolamento di ogni operaio (di solito donna) che inserisce un microchip, in parallelo con centinaia se non migliaia di colleghe attorno, quale s’intravvede nei filmati di fabbriche cinesi di computer. Occorrerebbero documentari precisi, animati da spirito scientifico e non pubblicitario (come in tutti i campi).
Certo i pochi artigiani ancora vivi e operanti non sarebbero contenti di farsi stritolare in una “catena di montaggio” che, dagli anni 20 nelle fabbriche di Ford in poi, non ha cessato di accelerare. Ma che cos’è il discorso di Sennet se non una sfida a ritrovare nella figura archetipica (Efesto) dell’artigiano il fulcro di una rivalorizzazione del lavoro al tempo della sua crisi ?
In assenza: 1. di una reale esperienza sul campo da parte di chi scrive; 2. della reticenza, o impossibilità, di Guido Viale a specificare ed esemplificare la sua proposta di “riconversione ecologica” non centralizzata (e quindi potenzialmente mafiosa, vedi eolico italiano), forse potrebbe risultare utile rovesciare la narrazione di Sennett. Diversamente dalle gilde medievali di botteghe artigiane (in competizione fra loro), e dal momento che le tecnologie pulite di base per produrre localmente energia (elettricità, pannelli solari, biomasse) sono oggi socio-culturalmente accessibili, che cosa accadrebbe se una ditta idraulica, un’ebanisteria, una fattoria permaculturale, una che ricicla materiali ferrosi, una cartiera, una compagnia di poeti e danz-attori, una produttrice di software, una di allarme e monitoraggio territoriale … formassero un ‘consorzio di autosufficienza’, e quindi costellazioni di microcomunità inter-in-dipendenti ? più che di un nuovo modello co-operativo, qui si tratterebbe della costituzione orizzontale e verticale di unità co-evolutive – trans-disciplinari, trans-culturali, persino trans-religiose (Raimon Panikkar)[3].
Proseguendo in questa “fantapolitica”: tutti coloro che non riuscissero a “trovare lavoro” direttamente nelle unità produttive, ricevendo però un assegno o un qualche modulo di sussistenza, in cambio avrebbero l’obbligo di periodici (semestrali, annuali) compiti di formazione personale e manutenzione di impianti. Il governo centrale potrebbe occuparsi eminentemente di ricerca spaziale e biomedica, grandi opere e servizi di infra-(ri)strutturazione, progetti di interscambio culturale… Ed ecco, immediatamente salta agli occhi che tutto questo non sarebbe affatto un modello ‘irenico’, bensì di un orizzonte di conflitto permanente, con lo Stato (in Italia anche con la Chiesa) e con le Multinazionali. Ma infatti è proprio quello che già avviene, persino per le più antiche e collaudate comunità eco-logico-spirituali (Findhorn, Auroville), ma soprattutto per le giovani nazioni latinoamericane e per le contemporanee New Towns inglesi. E’ chiaro che non solo nell’Europa altamente civilizzata – le cui città non sono altro che vetrine, nel senso immediato e mediatico, di grandi Banche e Società di Servizi trans-continentali – la riconquista di un solo metro quadrato di bene comune è, e sarà sempre, una lotta corpo a corpo per abitanti di interi quartieri – così come avviene per le dichiarazioni e le pratiche di ri-appropriazione territoriale in nome di Pachamama in Latinoamerica.
Solo che invece di subire, arretrare e difendersi, occorrerebbe ‘anticipare la partenza’ per un nuovo tipo di società, che abbia nella sua Costituzione alcuni non-negoziabili principi di uno sviluppo umano in armonia con la natura, col pianeta Terra sentito come un solo bene comune. Riciclabilità dei prodotti, minima impronta ecologica nel paesaggio, minimo impatto per trasporto, semplicità d’uso e gestione virtuosa delle risorse energetiche…
Un processo di questo tipo non sarebbe nient’altro che la Rivoluzione, cioè l’uscita di minorità del genere umano. La ricomposizione di un pensiero alternativo può comunque contribuire a formare motivazioni laiche e razionali per comportamenti (“etica”) alternativi.
[1] Peter Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita (trad. Stefano Franchini), Raffaello Cortina, Milano 2010
[2] Richard Sennett, L’uomo artigiano (trad. Adriana Bottini), Feltrinelli, Milano 2008
[3] Nel presente “nuovo medioevo” potrebbe sembrare lo scivolamento a un “modo di produzione” precedente, quello dei monasteri: utopia doppiamente regressiva e impossibile – per il volume della popolazione elevato a potenza rispetto al periodo dei monasteri, e perché essi si costituivano attorno a figure carismatiche, spirituali e comunque gerachiche…
POLITICA DELLA BELLEZZA IN-COMUNE
14 ottobre 2012
PER-VISIONE DI UN FUTURO
di Nicola Licciardello
Per-visione, pre-visione, immagin-azione, comun(ic)azione.Non utopia ma fantascienza, una buona fantascienza soltanto ci può salvare. Salvare chi da cosa ?
Salvare la memoria delle origini: terra, acqua, fuoco, aria – energia-in-comune.
Salvare la memoria dell’evoluzione del rapporto fra uomo, cioè tecnica, e natura.
Salvare la memoria delle origini – mentre la tecnica porta l’uomo FUORI dalla Terra, nello spazio, e quindi lo trans-forma.
Ed è proprio dallo Spazio che occorre contemplare ora quella memoria, tutta intera, la Terra abitata dall’uomo, interpretandone e consegnandone sì una ‘copia’ alla Terra, ma portando l’altra in viaggio nello spazio. Un’antropologia-scienza naturale globale (non definitiva).
Siamo in un nuovo salto di civiltà, molto più radicale di quello compiutosi con le circumnavigazioni e “conquiste” del globo cinque secoli fa.
Sulla Terra stessa si vive sempre più fuori da essa, nel mondo virtuale e realissimo dell’ informazione, la quale tende all’entropia, a uno stato stazionario e uniforme, di “morte termica”. Proprio in quanto la memoria delle origini con le sue varianti sta scomparendo all’interno di paradigmi globali – ma basati sull’istantaneo, pulviscolare, automatico calcolo di differenziali finanziari: virtuali rispetto alla vita degli stessi operatori umani, i quali non hanno potenza di controllo sugli algoritmi e sulle scelte.
E siamo nel tempo dei Grandi Numeri. Il ‘successo’ di un’informazione, che costituisce la sua verità, è il numero di adesioni o ‘iscrizioni’ immediate degli spettatori di un momento. Lo spazio per le minoranze è ‘stocastico’. Le grandi decisioni sono frutto di Grandi Numeri, che espugnano non solo le “sovranità” individuali, ma anche le nazionali e le sovranazionali. A governare i Grandi Numeri non basta la tecnica, né la democrazia rappresentativa, perché essi sono un’ iperdemocrazia ‘reale’, ovvero la moltiplicazione delle interazioni in prima istanza simboliche fra tutti i membri dell’umanità. Se in queste interazioni simboliche si perdesse la memoria delle origini, se tutte venissero ridotte all’economia – virtuale che affama quella reale – si cancellerebbe la Storia sulla Terra, e l’uomo dello spazio non avrebbe più un luogo ove ‘tornare’, una narrazione a sostenerlo, un mito a orientarlo. Si perderebbe anche lui, senza MutterdoubleMaschinen a ricordargli chi era.
Il compito dell’uomo sulla Terra è forse ancora quello della sua nascita: non più solo riproduzione animale – ma mediante il VISO dell’amore, mediante l’esperienza dell’altro-con-me, nel doppio ritmo dell’infinito che porta Vita infinita, estatica gioia – come rispondendo e ringraziando ‘meritarlo’ ancora cantandolo, in arte (tecne) trasfigurandolo. Lasciando tracce, simboli e memorie di un oltre l’abitare, di ciò che non è dell’uomo o della Terra, ma del Cosmo come Creazione.
L’Arte, la Guerra, la Politica, la Scienza hanno svolto questo lavoro di equilibrio immunitario. Ma da quando tutte si sono asservite alla Tecnica, per il successo immediato, hanno progressivamente abbandonato il loro scopo, producendo nichilismo di massa nell’effimero. L’arte, la parola, le scienze non sono cumulative, ma la tecnica è iper-cumulativa, esponenziale e irreversibile. Dal computer non si torna alla macchina da scrivere. Dalla bomba nucleare non si torna alla catapulta (e ciò impedisce la Guerra Mondiale). Dal trattore non si torna all’aratro tirato da buoi (eppure…). Ogni salto tecnologico conserva in sé la ‘forma’ dei corsi precedenti, ma ne accelera incalcolabilmente il ritmo. Il ritmo della tecnica è oggi spinto a inseguire all’infinito i Grandi Numeri, relegando l’uomo a meno che esecutore, ma al tempo stesso ‘sparandolo’ fuori nello spazio. Può l’astronauta tornare ad abitare la terra ? Può il cybernauta sulla Terra (noi tutti su facebook) (ri)abitarla in modo equilibrato ? Come si è trasformata la nostra mente frequentando la realtà virtuale ? Quali ‘virtù’ o esercizi (askesis, ricorda Sloterdijk[1]) occorrono, in questa trasformazione, per il lavoro necessario ad abitare la terra in modo equilibrato ? Quali forme di associazione, quale polis occorre (ri)creare per tornare ad abitare la terra senza distruggerla – anzi continuare ad abitarla lasciandovi memorie di eterno (d’amore) ? Queste ci sembrano le domande su cui occorre riflettere quando si pensa di affrontare oggi la questione del Lavoro – prima che il problema di ‘occupare’ la forza-lavoro che non può più continuare a produrre distruzione di beni comuni. Il problema invece del Lavoro come Amore, dell’amore come lavoro necessario.
Possiamo, fuori da facebook, con-muoverci ? Versando “lacrime e sangue” – non per trasformarli in crediti finanziari che “i mercati” restituiscono in feedback negativo, cioè moltiplicando la distruzione dei beni comuni superstiti. Al di là delle lacrime di rabbia, versiamo ancora lacrime di con-mozione condividendo bellezza ? dal nostro ‘sacrificio’ di con-laborazione, nelle lotte per l’inter-esse comune, alla bellezza stessa delle grandi ‘performances’ naturali (eruzioni, cascate, terre-maremoti). Possiamo ancora con-muoverci tenendoci per mano ?
Se crediamo che questo ancora avviene o può avvenire, si tratterà innanzitutto d’inventare le forme e i ritmi di ri-conoscimento (ri-conoscenza) e rilancio (ricreazione) della bellezza, quella tuttora palese e quella eclissata. Ritrovandola nella vita fisica e in quella virtuale. Forse, più precisamente, nella virtuosa circolazione fra vita fisica e virtuale, in un continuo scambio e travaso dall’una all’altra, che ne moltiplica gli effetti in modo esponenziale. Rovesciando così il potere dei Grandi Numeri in potenza delle nostre facoltà creative. Questo soltanto forse si può chiamare oggi Rivoluzione. E’ qualcosa che già avviene, che è stato tematizzato da innumerevoli ecologisti, attivisti e movimenti[2] – e di cui gli eredi delle “sinistre”, un tempo (un breve tempo: un secolo e mezzo) rappresentanti delle “classi subalterne”, non possono appropriarsi, proprio perché si tratta di un bene comune. Di un interesse umano generale, che solo in quanto metodo può esser fatto proprio anche da quegli eredi. Non si tratta dunque di formare un “fronte” popolare contro gli sfruttatori, ma di comunicare in ogni occasione la bellezza che non appare, la storia segreta, l’inquadratura che spiazza e trascende, il ritmo che accende e placa, la parola dell’ ‘impossibile’.
[1] Peter Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, Raffaello Cortina, Milano 2010
[2] Di Marcel Jousse, autore de Le style oral rythmique et mnémotechnique chez les verbo-moteurs (1925), sabato 20 ottobre ore 10,30 il sottosegretario all’istruzione Marco Rossi Doria presenterà al Salone dell’Editoria Sociale del Testaccio a Roma Il Contadino come Maestro, assieme al curatore dell’opera Antonello Colimberti.
CLARIBEL ALEGRIA-AMERIKAN WAY OF DEATH
9 ottobre 2012
“Ti ho sognato…cullavi contro il tuo petto un remo di ossidiana…il popolo è l’altro tuo remo / ed è alla deriva…” scrive (“Cordoglio a Montezuma”) Claribel Alegría, quasi novantenne poetessa nicaraguense, presentata alla Fondazione il Fiore di Firenze dal Centro Studi Jorge Eielson – Martha Canfield, Antonella Ciabatti e Andrea Spadola. Montezuma è inclusa in Alterità (Sassuolo ed. 2012, trad. Daniela Ruggiu, intr. Gioconda Belli), dove altre figure, quali Giobbe, Dafne, Selene a Endymione, subiscono un processo di ‘desolazione’ esistenziale – al pari di Penelope (che scrive a Odisseo di non tornare) e Malinchi, la famosa “traduttrice-traditrice” dei Maya, che qui denuncia di esser stata venduta come schiava a Cortez. Lo stesso editore ha tradotto Ceneri d’Izalco (1966), scritto assieme al marito nordamericano Darwin Flakoll sul massacro di contadini del 1932. Alle immedicabili ferite della storia (non solo) centro-americana risponde solo un’indomabile passione d’amore e una sgomenta solitudine, in un dettato semplice e universale. Abbiamo qui scelto un testo attualissimo per i giovani d’occidente.
CARLO SINI: LA VERITA’ E’ IL NOSTRO TRANSITARE
19 settembre 2012
CARLO SINI:
NATURA come VITA ETERNA e DENARO BENE COMUNE
di Nicola Licciardello
In questa formula vogliamo riassumere l’idea metafisica (“la filosofia è politica”) che Carlo Sini ha presentato nella sua lectio magistralis al Festival Filosofia di Modena (15 settembre 2012), e che l’ultima pagina del suo Del viver bene (Jaka Book, settembre 2011) arricchiva di una visione e proposta dei “beni comuni” che include il denaro.
L’alta passione civile, filosofica, a tratti persino ‘religiosa’ nel tono umile e accorato dell’uomo: l’intervento di Modena ha commosso il pubblico, che ha risposto con un applauso interminabile, confermando Carlo Sini una delle voci più consapevoli dei problemi anche “linguistici” del nostro tempo. L’intervento era volto a mostrare la completa immanenza delle nostre parole nelle nostre azioni (“facciamo quel che diciamo e diciamo come vogliamo fare”), per liberarci da ogni verità astratta e solidificata (“la verità è il nostro transitare”) e assumercene quindi la piena responsabilità. La curvatura filosofica nel concetto di epopea ‘globale’ degli umani al lavoro – in ogni tempo immersi e giudici secondo il loro tempo – lasciava tuttavia indeterminato e indicibile lo sfondo della natura.
Le pagine conclusive del libro citato, nell’appendice “Il bene comune come spazio economico e luogo politico”, danno qualche chiarimento. “Tenendoci lontani sia dalla riduzione della natura al mero ‘fisicalismo’ pseudoscientifico, sia dalla sua enfatizzazione arcaico-feticistica, abbiamo bisogno di portare la coscienza e il sapere all’altezza delle cose che facciamo, fondare un pensiero futuro davvero ‘comprensivo’ della natura, nel nome di un ‘terzo’ finalmente incluso”. “Questo terzo è la coscienza della sterminata eredità storica e genealogica dell’intera epopea umana nel suo perenne incontro con la natura, intesa non come ‘oggetto’ o ente reale ‘in sé’, ma come evento e continuum relazionale, rivelazione della ‘vita eterna’ – origine e destino dei mortali”.
Il libro prende avvio dall’analisi della Favola delle api di Mandeville e giunge alla proclamazione amerindiana di indipendenza dalle logiche di sfruttamento neoliberiste e invece appartenenza alla Pachamama o Madre Terra (dal loro Buen vivir prende il titolo) – e qui forse la ‘traduzione’ filosofica siniana può apparire di nuovo un po’ astratta.
Ma seguono le più interessanti dichiarazioni sul denaro. “Il denaro è il presupposto, la condizione e lo strumento regale di tutte le possibilità future di liberazione e di reale progresso, a patto però che se ne comprenda la natura profondamente relazionale e comunitaria […] la socializzazione del denaro, per esempio attuata da una decisione istituzionale e politica che ne stabilisca la ‘mortalità’ programmata, come accade per la merce deperibile (ineluttabile contro-faccia della sua capacità di generare altro denaro a partire da sé), determinerebbe la conseguente impossibilità di ‘capitalizzarlo’ privatamente senza limiti, e l’obbligo invece di usarlo, rendendo fino in fondo vera la sua vocazione alla ‘liquidità’”. Comportarsi col denaro, conclude efficacemente Sini, come con i semi degli agricoltori o con le opere dell’ingegno, cose che non devono in nessun caso essere privatizzate, poiché la loro radice è in ogni caso sociale e il loro evento è sovrabbondante a ogni individualità e vita soggettiva.
LATOUCHE: REINCANTARE IL MONDO NELL’ABBONDANZA FRUGALE
18 settembre 2012
Nel brusio di un pubblico che in maggioranza sogna ancora la “ripresa della crescita“, Serge Latouche conclude in Piazza Grande a Modena il Festival di Filosofia 2012. In 70 minuti (qui proponiamo l’ultima parte) ripercorre i nodi dell’impossibile espansione illimitata del consumismo neoliberista (citando Illich, Gandhi, Castoriadis, Stiglitz, Lukaks, Bevilacqua etc), illustra il progetto di decolonizzazione dell’immaginario verso l’ABBONDANZA e FRUGALITA’, AUTONOMIA e LIBERTA’, FELICITA’ e CONVIVIALITA’, cita esempi virtuosi (dalle “Transition Towns” inglesi a “Kilometro zero” italiano) – le scommesse per un REINCANTO DEL MONDO richiedono “pressioni dei cittadini, senza di cui non funziona nulla”.
Nel suo tono è assente qualsiasi dubbio filosofico o risentimento politico: c’è invece la franca sicurezza di chi sta esponendo l’utopia concreta, anzi il progetto ‘scientifico’ necessario dei prossimi anni – in un cordiale humour.
Subito dopo, il Sindaco di Modena annuncerà la “parola” del Festival di Filosofia 2013: AMARE.
UN CANTO CONTRO LE SIRENE
3 settembre 2012
LA FINE DELLA II REPUBBLICA E LA GRANDE CRISI
Con la querelle sulle intercettazioni (indirette) del Capo dello Stato sembra chiudersi in Italia un ciclo politico. Praticamente la cosidetta Seconda repubblica, quella del bipolarismo e della corruzione berlusconiana. A chi guardi senza pregiudizi lo scenario, non sorprende che i “piedi sul Colle” siano arrivati prima della scadenza del mandato settennale, in modo da livellare nel fango il Presidente, la magistratura e le famose inchieste sulla trattativa stato-mafia, “proprio quando si era a un punto decisivo” dell’inchiesta relativa – al tempo stesso gettando le basi per una possibile Terza repubblica, stavolta davvero populista, cioè autoritaria. In questo teatro del suicidio politico istituzionale sono tutti protagonisti, a partire dai media, ma forse si tratta di un rituale, tipico di una classe politica che pur di non aggiornarsi preferisce suicidarsi, contando su una risposta di regime a una possibile disperazione popolare – processo attraverso il quale si possono comunque mantenere proprietà e privilegi acquisiti. Le ultime vicende della Roma repubblicana prima di Cesare mostrano affinità con l’odierno ribollire sociale italiano: i cavalieri manterranno il potere, proprio mentre il loro “modo di produzione” iniziava ad andare in crisi.
Ora l’industria italiana è in declino. Prima della crisi finanziaria globale, prima della crisi (forse irreversibile) del capitalismo quale crescita infinita del Pil, è il modello industriale italiano a essere obsoleto ed ecologicamente insostenibile. Ed è la troppa diversità dello sviluppo capitalistico nei paesi del sud da quelli del nord ad acuire oggi la crisi finanziaria in Europa. Finché si doveva produrre merci, il polo sud e il polo nord dell’Europa hanno fatto un potente magnete. Il decennio dell’euro è servito a indebitare i poveri (Grecia) di questa bella moneta nuova, e far guadagnare i ricchi, quindi la Germania ha potuto investire in ricerca e innovazione. Oggi quello che occorre ‘produrre’, in una decrescita di fatto (necessità-virtù), è solo immagine, virtualità finanziaria dei beni, necessaria a venderli in borsa. Quello che oggi serve è un’elite tecnico-finanziaria di un’Europa federale, potenza continentale, colmando il ritardo con gli Usa e la Cina che già lo sono. E questa sarà la risposta autoritaria europea, da sperare il più ecologico-sociale possibile.
Se è così, la crisi della sinistra è tragica e irreversibile. Perché dalla governance (a sovranità €) è esclusa ogni considerazione “etica” o di “giustizia” in senso tradizionale, essendo caduto insieme al welfare il pensiero stesso dell’eguaglianza e della fraternità. La sinistra non ha più una legittimazione politica in quanto non ne ha una ideologica, quella che era la sua “visione”, la classe del lavoro dipendente che si emancipa con le lotte, progressivamente non ha più luogo. Resta così incomponibile tutta la dissidenza, la rabbia, l’indignazione, la rivolta del comune.
E però bisogna pur risalire a una qualche verità antropologica. Nella recensione a Gilbert Rist I fantasmi dell’economia (il Manifesto 29 agosto), Paolo Cacciari lo segue affermando che “la ragione della forza mobilitante dell’economia sta nel fatto che non è una scienza, ma una credenza. Non fornisce una rappresentazione realistica del mondo, ma ideologica, immaginifica, mitica. E, per nostra somma sfortuna, «la teoria economica deriva dal paradigma della guerra. Guerra contro la natura, guerra degli uomini tra di loro>. Certo, ma se fosse ‘soltanto’ questo, decenni di demistificazione, cultura alternativa, soluzioni ecologiche e occupy avrebbero travolto, almeno ideologicamente, queste “credenze” del dio denaro. Ma – oltre al fatto che le generazioni non hanno memoria se non (al massimo) di quella precedente, e dunque occorre sempre ripartire da zero – c’è qualcosa di più profondo, io credo, sotto la credenza del dio denaro. Ciò che nessuno, di destra o di sinistra, mette più in discussione, ciò che è il grund sotteso – forse più della stessa libertà della donna – a ogni atto di lavoro e distrazione è: meglio morire lavorando in questo mondo ingiusto e insostenibile che tornare alle candele, alle frustate e soprattutto al colera. La fedenel progresso tecnologico, specialmente biomedico, tipica del modello occidentale, domina l’inconscio collettivo. Meglio “morire lavorando” – sacrificarsi in un sistema che potrebbe un giorno fabbricare automi al posto dei lavoratori, e dove qualcuno, magari un mio discendente, potrebbe riuscire non solo a curarsi da ogni malattia, ma a comprarsi l’immortalità. E, per le menti più aperte: perché qualcuno, in rappresentanza dell’intera umanità, e dunque anche mia, potrà un giorno mettere piede su altri pianeti, conquistare lo spazio, e magari prima o poi incontrare davvero l’Altro, un’altra razza intelligente. Su queste fortissime pulsioni simboliche gioca la New Age, prosecuzione soft della politica con altri mezzi, cioè (non solo) via web.
Contro queste immagini (energie archetipiche), s’infrange persino l’evidenza disastrosa della crisi economico-finanziaria, così come quella opposta della convenienza e piacevolezza di produzioni sociali ed ecologiche. Prima che economico, politico o di classe, è il nostro schema antropologico a costituire l’appartenenza al “pensiero unico” dell’Occidente. Tale schema è in effetti trasformabile in primis attraverso vie esoteriche di liberazione individuale – yoga, tantra, tao – e quindi attraverso esperienze comunitarie. Ma può la mistica essere la “norma dell’uomo” comune, come invocava Zolla ? C’è forse una musica, un suono, un canto o un’azione comune – una qualche ‘arma’ più sofisticata di quelle industriali – capace di vincere le Sirene dell’Immortalità? Potremmo, avremmo potuto, tapparci tutti le orecchie, solo nella fede che vi fosse, al di là delle Sirene, un Ritorno a Casa… ma il ritorno, come già vide Kubrik, è nello Spazio.
ODIN TEATRET-Dimostrazione Padova 1998
30 agosto 2012
Come sanno gli storici del teatro, l’Odin Teatret tenne a Padova una delle prime sessioni dell’ ISTA (International School of Theatre Anthropology), nel 1990, ospite di Teatro Continuo. Indimenticabile in quell’occasione la ‘decostruzione’ della danza indiana da parte di Sanjukta Panigrahi. Ma non meno intensa e formativa è stata la stagione 1998 di workshop e dimostrazioni di lavoro, soprattutto tenute da Julia Varley. Di lei, omettendo le spiegazioni (per un problema di audio) – assieme a Roberta Carreri, Iben Nagel Rasmussen, i musicisti Jan Ferslev e Kai Bredholt e un meravigliosamente danzante Torgeir Wethal (da sempre attore dell’Odin, stroncato da un tumore nel 2010) – qui si propone un frammento emozionante.
ANDREA ZANZOTTO: (PERCHE’) (CRESCA)
28 agosto 2012
Un giorno ormai lontano, aprendo a caso il Meridiano Mondadori delle Poesie e Prose scelte di Andrea Zanzotto (1999, a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta), lessi questa poesia in silenzio (p.587, da Il Galateo in Bosco). E immediatamente scesi giù, dove avevo un dat per registrare, e misi un disco a caso: registrai la mia lettura ad alta voce, divertendomi molto con il ‘rameggiare’ di una così esplicita tensione-pulsione erotica, con il ritmo di una reale improvvisazione, e relativo climax… Philip Glass sembra evocato dalla lettura stessa… il cui divertissement, forse ‘barocco’, mi chiedo se rende giustizia al testo indubbiamente ‘performativo’ di Zanzotto.
PINA BAUSCH – Fur die Kinder (Splitter) Venedig 2005
14 agosto 2012
Dopo “Pina” di Wim Wenders (2011, in 3D !) – che non solo intervista gli attori del Wuppertal TanzTheater, ma ricostruisce le scenografie più emozionanti di Pina Bausch – nessun miracolo filmico può restituire ancora qualcosa della forza vitale di quello stile, quello che di più d’ogni altro forse ha segnato la Kultur del teatro-danza europeo nell’ultimo scorcio del secondo millennio.
Qui si propongono frammenti in particolare dagli assoli di Ditta Miranda Jasifi e Aida Vainieri: diversissime, eppure accomunate da rapidità esecutiva, intensità espressiva del corpo, potenza (e)statica – le due danzatrici sembrano far risuonare due caratteri essenziali del teatro collettivo di Pina Bausch: la compassione e l’eros.
MARIA ZAMBRANO: L’ALBERO DELLA VITA. LA SERPE
22 luglio 2012
Da: I beati (Los bienaventurados, 1990), trad. Carlo Ferrucci, Feltrinelli 1992.
L’Albero della vita. La serpe: di María Zambrano (mirabilmente volto in italiano) questo testo profondamente intricato (come il soggetto di cui tratta), è denso di un pathos ‘olistico’ resistente a ogni razionale ‘ordine’ enunciativo: l’origine della vita, la sua crescita, il rapporto terra-madre-figlia, il sacrificio cosmico – un pensare di titanica complessità, ostinatamente presentato nella forma più laconica e “viscerale”. Questo carattere cerca di trasmettere la mia lettura (del 1994), con la sua (irripetibile) adesione appassionata e imperfetta, esitante e incespicante sugli abissi di senso, sulle trasversali rivoluzioni – e il cui unico fine è ricondurre al testo scritto per una sua meditazione.
ELEMIRE ZOLLA SU NIKOLAI ROERICH
11 luglio 2012
ELEMIRE ZOLLA su NIKOLAI ROERICH, Gargnano 1996.
Di questo primo convegno internazionale su Nikolai Roerich (1874-1947), si presenta qui (quasi integrale) la relazione conclusiva di Elémire Zolla. Solo in audio, per dare spazio alle immagini del pittore russo, assolutamente unico. Una produzione sterminata – 7000 quadri, che ora si trovano fra gli Usa (gran parte al Museo Roerich di New York) e la Fondazione Roerich di Mosca – e lo stile inconfondibile, sempre più essenziale nel periodo himalayano, lasciano l’osservatore a bocca aperta per lo stupore, il thauma – per i greci all’origine della filosofia, o il samvega vedico: non di fronte a uno spettacolo della natura, ma a quello della sua folgorante ri-creazione – l’occhio del pittore ha penetrato le forme formanti della montagna e dei suoi asceti, ha conosciuto a una pari e reverente altezza l’essenza dei suoi colori archetipici, e questo realissimo impossibile ci trasmette.
Roerich, con la moglie teosofa Helena Ivanova, è famoso per il “Patto per la Pace”, cioè per la Cultura come salvaguardia dell’Arte, valore spirituale e patrimonio dell’umanità (come oggi si dice) – firmato nel 1935 con Roosvelt e 21 stati americani (proposto perciò al Nobel) – e per le sue grandi spedizioni himalayane, in cui raccolse preziosi documenti antropologici e paesaggistici.
Ma la cosa più singolare del Convegno del 1996 sono state proprio le conclusioni di Zolla. Un singolare excursus sull’ipotetico Shambala, progetto politico russo-tibetano, che affonda le sue radici nel simbolismo e nel cosmismo russo prerivoluzionario, e che avrebbe accompagnato Roerich assieme ai governi russo, tibetano e indiano fino all’epoca di Stalin. Una vicenda intrigante ma verosimile, quale interpretazione profonda della missione cui Roerich avrebbe dedicato la vita. Tale risvolto non compare nella corposa (ma “contestata”) ricostruzione di wikipedia, e bisogna supporre che Zolla abbia consultato direttamente fonti russe – oltre che, naturalmente, la sua grande intuizione.
CACCIARI: MERAVIGLIA IN POESIA
10 luglio 2012
Al Festival di Filosofia di Modena 2011, Massimo Cacciari (al termine della sua lezione) risponde a una domanda di Nicola Licciardello: “Se in filosofia e poi nella scienza non c’è più alla base lo Stupore, la Meraviglia per la Natura, da cui originano le domande dell’uomo, c’è ancora oggi alla base della poesia quel Thaumazein ?”. Cacciari risponde di sì, che sono linguaggi diversi, non escludentesi. Eppure, si può constatare che nella gran parte della poesia contemporanea non c’è, di fatto, quella Meraviglia. La questione dunque non è sul linguaggio, ma sul mutamento antropologico ?
IL RITMO ALL’ORIGINE DELLA FORMA
18 giugno 2012
LA PALABRA DE LA POESIA
20 Maggio 2012
VI Festival Internazionale LA PALABRA EN EL MUNDO, VENEZIA 13-14 maggio 2012.
Dedicato alla PACE. Grazie soprattutto a Giuliana Grando (Ass. Italia Cuba) e Anna Lombardo (“Le voci della luna”).
Tre lingue, tre ritmi di parola poetica: il canto tragico e sciamanico della messicana Jennifer Cabrera, il felpato passo della libanese Hanane Aad, l’implorazione asciutta del kannada Shivaprakash (attaché culturel all’Ambasciata d’India a Berlino). Tre forme di POESIA per scongiurare l’odio, la vendetta, la guerra — di cui c’è sempre più bisogno.
JENNIFER
HANANE
PER FARE IN COMUNE
27 aprile 2012
PER DEFINIRE I BENI COMUNI
Nonostante il nome “Alba. Alleanza Lavoro Beni Comuni Ambiente” abbia avuto più voti (134) che “Lavoro e Beni comuni” (90), è probabile che a Firenze venga approvato il secondo, perché più semplice. Avevo proposto “Fare Comune” (17 voti), come urgente invito all’agire, trasversale e territoriale, ma è troppo polisenso. L’articolo di Asor Rosa (oggi sul Manifesto) consente di completare il dibattito sulla proposta del Soggetto Politico Nuovo. Cerco di riassumere le varie posizioni, non per cercarne una sintesi, ma per averne un quadro concettuale, che aiuta a chiarirne le strategie politiche sottese.
La prima è quella per esempio di Centro Studi Alternativa Comune di Ya Basta (Antonio Musella e Leandro Sgueglia, in “Micromega” 30 marzo 2012) “sono beni comuni, cioè commons, le risorse primarie naturali, i suoli, il sapere, l’arte, le altre produzioni sociali; l’abitare, il lavoro, il reddito sono invece diritti sociali”, ed è qui che forse ha ancora senso la categoria di “pubblico” versus “privato”. Ma per andare a un “governo comune dei beni comuni” valgono soprattutto i “meccanismi mutualistici e cooperativi” sviluppantisi durante le lotte, e un più permanente “fare società”, cioè “l’autogoverno delle comunità” e addirittura il “tumulto costituente”.
Asor Rosa invece diciamo che ‘torna al classico’: lotta di classe come paradigma storico-politico, ma democrazia rappresentativa riformista, beni comuni (tolto ogni orpello teologico e buonista) ricondotti a quelli “pubblici”. Fra questa prospettiva ‘sistemica’ (in parte sovrapponibile a quella di Rossanda) e la prima – che discende dalla ‘moltitudine costituente’ (‘oltre’ il pubblico e il privato) – si situa una galassia di elaborazioni, fra cui quella degli estensori del Manifesto per un soggetto politico nuovo, riassunta nel coniugare Lavoro e Beni Comuni. Gli altri nomi proposti sono però indizi dei diversi accenti posti su diverse strategie. Non se ne può fare un unicum, perché esprimono ideologie, articolazioni e valori direi incarnati anche in precise entità politiche: dai Centri sociali a Rifondazione Comunista a Sinistra Ecologia e Libertà, e mettiamoci anche i Verdi.
Ma una cosa buttata lì nel finale da Asor Rosa mi pare importante (da collegare alla visione di Guido Viale): “molti soggetti collocati liberamente all’interno di un terminale che fa da punto di riferimento logistico (niente di più) dell’insieme (se mai avrebbe senso lavorare, con i medesimi criteri, per una Rete di Reti”. I ‘contenuti’ di questa rete di reti sono ben scanditi nella visione di Viale, articolata su molti livelli: “riterritorializzazione, sovranità, transizione partecipata” – non solo consumi condivisi, ma “fare impresa” comune sul territorio, “ambiente come bene comune, la cui salvaguardia, a beneficio delle generazioni attuali e future venga affidata a chi su quel territorio vive e lavora”. E mentre sul piano diciamo riformista, o della rappresentanza, è imprescindibile una rinegoziazione del debito (“la decrescita è un fatto, il problema è governarla”), “sedi di formazione specifiche sono già in parte molte esperienze pratiche di altraeconomia, di imprese sociali, di gruppi di acquisto, di associazioni e comitati territoriali”.
Un’idea del soggetto politico Nuovo come facilitatore di istanze già in corso, e una lungimiranza sul medio periodo – che è anche quella di Rodotà, quando parla dei beni comuni “funzionali all’esercizio di diritti fondamentali, e al libero sviluppo della personalità, che devono essere salvaguardati sottraendoli alla logica distruttiva del breve periodo”. L’unica cosa che aggiungo a tutto questo (non c’è nel programma dei verdi italiani) è che in questa transizione abbiamo bisogno di poesia, intesa come gioia del fare-in-comune, e questa viene da un’esperienza di ‘riconversione’ ecologica della nostra mente. Quando dico “sacralità della comunità umana come parte della natura” intendo una cosa molto semplice: quando viene una bella giornata dopo molto cattivo tempo, la si celebra – con una passeggiata, mezzora di sole, dei contatti. Niente che venga prima, nessuna scadenza, nessun contratto (si vedrà l’indomani) – prima la natura: Fare pace con la terra, dice Vandana Shiva, è un diritto umano universale, come quelli del 1948.
SOGGETTO POLITICO NUOVO – “FARE COMUNE”
Da Padova (tuttora referente per la “poesia bene comune”), con meno di 1000 euro al mese trasferitomi da qualche anno in un paesino dell’Alta Maremma – dove provo a condividere pratiche e linguaggi – rispondo alla vostra mail del 17, che invita alla discussione sul nome del Soggetto Politico Nuovo, avendo partecipato ieri sera all’incontro territoriale di Siena, coordinatore Massimo Torelli. Ho lì condiviso lo sconcerto per l’articolo di Ugo Mattei sul “Manifesto” del giorno stesso, che mi sembra una ‘caduta di stile’, forse un ‘attacco preventivo’ ai politici che criticano il Manifesto iniziale per mancanza di contenuti. Non ci è parso il momento né la sede migliore per gettare sul tavolo tutte le carte (proponendo già il nome ‘partitico’ <Lavoro e beni comuni>): in modo così affrettato sul “che cosa faremmo noi nei primi 100 giorni di governo” – dalla guerra mondiale di liberazione a fianco dei popoli oppressi del Sud globale al ripensare l’euro come valuta, all’immediata uscita dell’Italia dalla Nato, la tassa patrimoniale e quella di successione, il reddito minimo e quello massimo, la moratoria sulle grandi opere e sulle dismissioni del patrimonio pubblico, addirittura una (semplice ?) semplificazione dell’ordinamento giuridico (fortunatamente con depenalizzazione dell’uso della droga). Beninteso, tutti obbiettivi condivisibili, ma l’elenco un po’ massimalista o giacobino non il più adatto ad allargare il consenso: persino Negri, qualche giorno prima, aveva giustamente proposto un solo punto, il reddito di cittadinanza (non quello “minimo”). Programma non esaustivo: assenza di norme sulla gestione del territorio, dell’energia e dei media. Questioni assolutamente centrali.
Comprendo le ragioni della fretta politica, e condivido l’ entusiasmo che un Nuovo progetto genera, ma pensavo che il NOME venisse più avanti (il Nome è tutto !), dopo una più lunga incubazione che dimostrasse fondati i presupposti metodologici avanzati nel Manifesto, quelli del capitolo sulle “passioni”, anzi sull’ autogoverno delle passioni, cui aggiungerei l’umiltà del servizio. Si vedrà se queste qualità le pratichiamo già: declinate qui come tecniche per un reale processo partecipativo, per ora sono l’unico contenuto innovativo del Manifesto. Necessarie, ma non sufficienti.
Il linguaggio, la parola è tutto, e dal Manifesto non evinco una visione capace di fare “egemonia”, cioè ‘potenza’ di un nuovo governo. Non si tratta di crescita o decrescita, ma di un pensiero e un’esperienza che siano non “all’altezza della tecnica della globalizzazione finanziaria predatoria” – per semplicemente contrapporsi ad essa (o, come Bifo, in disperata ‘secessione’ da essa) – ma molto più in alto, lungimiranza volta al futuro – perciò vincente. Einstein disse che non si può risolvere un problema nato a un livello di pensiero partendo dallo stesso livello di pensiero che lo ha generato. Dunque una rivoluzione epistemologica, che non pensi in termini di spread finanziari, ma che si dia come paradigma trans-culturale verticale, al centro una visione “olistica”: la sacralità della comunità umana come parte della Natura. Il Tutto, l’olon è in ciascuno di noi e in ciascun filo d’erba (a proposito di Whitman), è il “bene comune” di base. I cittadini dovranno essere “qualificati e informati” sui massimi sistemi, sull’ecologia che li riguarda intimamente, oggettivamente, prima ancora delle loro soggettive “passioni”.
Le cose che Guido Viale dice da tempo evocano una tale visione globale, ma un soffio di poesia ce l’ha solo all’inizio, evocando la ‘conversione’ verticale che ognuno oggi deve compiere. Nel Manifesto non si esplicita abbastanza il discorso sulla “formazione” di un soggetto politico Nuovo. Ma proprio di formazione, di cultura necessita un’organizzazione e un’appartenenza simbolica. Si dice: “L’organizzazione politica dovrebbe essere il grande laboratorio in cui si inventano e si forgiano i nuovi linguaggi di un dialetto universale […] nell’inclusione e nella contaminazione connessione-ibridazione tra identità”. Ma questo è il linguaggio orizzontale degli artisti contemporanei, i “narcisi” perfettamente inseriti nel sistema finanziario. In realtà le identità del singolo, come quelle di ogni paese, sono già “contaminate” e in continuo mutamento, si tratta di trovarne denominatori comuni più in profondità, più “dal basso”, ma anche più dall’alto, dallo spazio. Pochi giorni fa il “Manifesto” pubblicò un discorso di Edouard Glissant (in dialogo con Derrida): “Se vogliamo veramente incontrarci, noi che veniamo da mentalità così diverse, da culture così diverse, da teologie così diverse; se vogliamo incontrarci in un luogo, allora dovremo ripetere insieme, come si dice che un attore di teatro ripete la sua parte. Perché bisogna ripetere insieme e perché il tremore è un’arte, prima di tutto un’arte della ripetizione”. Qui si individua nel ritmo un denominatore comune, in quanto disciplina linguistica, artistica, religiosa. A Zuccotti Park, invece del microfono c’erano i più vicini a chi interveniva a ripetere in coro. In Italia non si è riusciti a “occupare” un luogo per più di mezza giornata (mesi a Wall street o alla Puerta del Sol, settimane alla cattedrale di S. Paul). Perché da noi non sono abbastanza forti i rituali di resistenza non-violenta nella ‘metropoli’. Invece si è scatenata una grande fantasia e resistenza nelle lotte operaie (mesi), e nei grandi cortei (la festa di un giorno). Fondere questi processi dovrebbe essere il servizio di una entità politica nuova. L’ Italia poi ha un tessuto connettivo di piccole imprese, con meno di 15 dipendenti o individuali, di ex e nuovi artigiani, molti fortemente innovativi in nuove produzioni ecologiche o in software.
L’incoraggiamento a queste soggettività, con la creazione di cornici istituzionali e finanziarie favorevoli, dovrebbe essere uno dei pilastri di una nuova politica. Assieme alla regolazione delle emittenze televisive, fine dei monopoli, incentivo alle culture locali – dai Parchi letterari alla musica alle reti web. Quello dei media è il settore chiave, prima di Berlusconi lo avevano capito nazismo e fascismo, Hollywood e il rock’n roll… Se non cambia il linguaggio televisivo, fondamento biopolitico del modello individualista che ha portato al debito sociale, è vano pensare a un governo nuovo. Quel linguaggio colonizza l’immaginario di tutti, anche di chi lo critica. I neuroni specchio ci fanno rivivere continuamente stragi, terrorismo e narcisismo. Dobbiamo continuamente, con qualsiasi tecnica psicofisica, disintossicarci e ri-trasformare il linguaggio. E se chi viene licenziato non può farlo (subito), il problema non è il lavoro – per una piena occupazione basterebbe la rivalorizzazione delle reti pubbliche, a partire dagli orti urbani – il problema è la trasmissione, la connessione, l’interfacciamento delle realtà, delle soluzioni di impegno e di vita.
Alla fin fine, ciò che tutti vogliamo – e quindi ciò che un movimento deve promettere – è meno stress e un po’ di felicità, di altro tipo rispetto a quella usa e getta. C’è molto da fare per fare comuni i beni. I “beni comuni” non esistono finché non li rendiamo tali. Per l’acqua, la risorsa più comune, si è vinto il referendum, ma l’attuazione s’inceppa. Sul territorio sarà ancora più difficile, ma certo gli epicentri dovranno tornare ad essere le amministrazioni dei Comuni. Con la collaborazione, gli incroci di competenze, le convergenze di interessi, la discussione pubblica, l’immaginazione tecnica per le soluzioni più semplici ed estetiche (ah, le inseminazioni dei fiori !), gli spazi liberi per la ricerca di invenzioni dal minimo impatto e miglior risultato energetico. Il bello comune. Il bello di un lavoro fatto insieme è fuori mercato, per questo ha benefici effetti sul sistema limbico e sul sistema immunitario. La pura gioia di progetto ed esecuzione collettivi. Perciò penso che il nome giusto per la cosa giusta, se proprio bisogna darlo subito, sia molto semplicemente FARE COMUNE. Non il lavoro da una parte e i beni comuni dall’altra – dati che problematicamente occorra ‘coniugare’ – ma il lavoro comune necessario a mettere-in-comune le risorse e le esperienze. FARE COMUNE: verbo piano e asciutto, e insieme esortazione a una rinascita infinita, perché parola che non si consuma, che mantiene l’indicibile e la sua ‘potenza’.
18 aprile 2012
HORCYNUS ORCA: L’ACITANA E IL GRAN VISIRE
13 aprile 2012
HORCYNUS ORCA-ACITANA E GRANVISIRE
E’ questo forse uno dei pochi brani ‘amabili’ dell’ Horcynus Orca. Apparentemente inscritto nella logica dell’indissolubilità (materiale) amore-morte, cui sembra alludere il finale – a meno che D’Arrigo qui immagini una sorta di tecnica sessuale ‘tantrica’ (“no, non doveva essere fòttere per fòttere”). In cui cioè l’immersione e il silenzio tombale (“né veramente vivi né veramente morti”) non siano affatto simboli di morte, ma tutt’al contrario segnalino uno stadio di congiunzione e di beatitudine assoluta. In questa chiave iniziatica allora sarebbe da vedere l’intero ‘dibattimento amoroso’, puramente verbale fra l’Acitana e il Granvisire: e cioè non solo come ironica, caustica desacralizzazione del rituale d’amor cortese. Il quale, come si sa, dilatava con figure mitiche, quali Il cavaliere e la Donna cui egli si sottomette, il tempo dell’apprendistato – il tempo cioè dell’ immaginazione che è il vero fare l’amore. Certo l’ironia della narrazione darrighiana sembra mirare alla condizione degradata, alla crisi radicale della ‘maschilità’ nel tempo della carestia (dovuta alla guerra), ma il divertissement di fatto evoca il livello iniziatico.
E rimane in tutto questo una sorta di simpatia, di benevola pietas dell’autore per Caitanello, il quale, quando è venuta meno l’Acitana, perfetta incarnazione della femminella (esecrata dalla femminota Ciccina Circé come sua polarità), ha perso questo insostituibile gioco d’amore, il partner con cui unicamente poteva re-citare ogni volta la parte quasi con le stesse parole, comunque con gli stessi ritmi, con la stessa fiducia nella risposta.
Nicola Licciardello: ho inciso questo brano (qui diviso in 2 parti, per dare respiro all’eventuale ascoltatore) nel 2007.
Questo brano conclude la prima parte di Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, un’opera ‘monstruo’ come l’animale cui si riferisce. E’ un’opera che a leggerla tutta, nell’edizione originale (Mondadori 1975, 1257 pagine) lascia come svuotati, incapaci di leggere e scrivere. Questo era il fine dichiarato: 15 anni di lavoro per “far coincidere i fatti narrati con l’espressione, la scrittura con l’occhio e con l’orecchio, rifiutando qualunque modulo che mi apparisse parziale, astratto o intuitivo, cioè non completo e assoluto …riscrivere, rifondare il periodo e ‘mirare’ il vocabolo finché non giudicavo d’avere raggiunto l’espressione completa, fino al momento in cui guadagnavo la certezza che il risultato ottenuto fosse quello giusto e definitivo, che la totalità lessicale, sintattica e semantica fosse realizzata, che, sulla pagina finita, la scrittura ‘parlasse’ ”. Che la scrittura fosse divenuta interamente voce, narrazione orale: come se una voce ci avesse raccontato per giorni, e giorni e notti una storia – fantastica, incredibile, grave e tenebrosa, ma una storia ‘vera’ (nella breve stagione della tanto attesa pubblicazione si disse: Omero, la Bibbia, Melville, Joyce…), perché ‘vera’, completa è la voce narrante, che proprio come sa fare un antico narratore, interpreta tutti i personaggi, traduce e ripete, ‘canta’ l’intera, tragica storia. E che cosa si può ancora leggere dopo che un narratore così ci ha incantato davanti all’abisso del mare per un tempo che ci pare infinito, perché ogni cosa è stata detta in ogni suo aspetto possibile ? D’Arrigo è veramente l’Orca che ha s-terminato la scrittura del Novecento. Così, è un paradosso che quest’opera intrinsecamente orale nessuno abbia provato a leggerla dal vivo, a darle una voce ‘reale’. E così, esortato anche da qualche amico, ho provato a inciderne qualche brano, essenzialmente perché è il siciliano la lingua darrighiana che fagogita ogni altra, che l’assorbe in un personalissimo sincretismo, come l’ “antropofagia” culturale del Brasile – e la mia lingua nativa è il siciliano.
Ciccina Circé è più di Circe-Calipso, è qualcosa di archetipico, sirena e maga, iper-Femmina (“femminota”): prostituta sacra, traghettatrice contrabbandiera, ammaliatrice di delfini (“le fere”) e annuciatrice di morte – che qui abbandona al suo destino il protagonista, quasi comicamente disperato di non aver capito che cosa ha vissuto con lei.
BAUBALI JAIN PILGRIMAGE
30 marzo 2012
BAUBALI JAIN PILGRIMAGE (19 febbraio 2012)
Si sale il monte di basalto rosa tenendosi allo scorrimano sinistro, fatto di tubi dell’acqua avvitati, ci sono ‘stazioni’ con portali in pietra, la vasca di Belagola man mano si allontana, il sole delle otto del mattino è oro, i piedi nudi aderiscono ai gradini inclinati di roccia, ci sono gobbe ripidissime, infine un porta immette oltre la prima cinta muraria, un’Acropoli. Colonne, templi, l’Odegal Basti è tripartito nelle 3 direzioni, col primo, il sedicesimo e il ventiduesimo thirthankar, statue enormi e identiche, poi il Padiglione Tyagada, che contiene solo un pilastro con intrico floreale, prototipo di Art Deco – e qui è il passaggio, da pellegrini a turisti e viceversa, la pulsazione dell’evento – più di metà (si) fotografano, tutti hanno almeno il cellulare, e vogliono apparirvi: per dimostrare una devozione reciproca, oltre che per sé, la prova reciproca d’esser (stati) lì, turisti-pellegrini.
Pochi badano al padiglione più piccolo, giusto prima della scalinata al Gomateswara: il suo quinto pilastro, centrale, è la statua splendida, singolarissima e inquietante di Gullakayj, la vecchia che aiutò il re Chamundaraya a inaugurare il Bhaubali versando del ghee o burro fuso. Bellissima e raggiante, perché si tratta della dea Padmani Devi, assistente di ogni thirthankar. Paradosso della trascendenza affidata all’arte, la religione come arte.
E l’arte come prosecuzione del gioco della natura. L’ultima complessa scalinata al Gomateswara, con Laxmi e gli elefanti sul timpano, è incastrata nella roccia, che sporge negli angoli più improbabili, è un supporto alla natura, essa stessa sacra.
Del Bhaubali da lontano appare il busto, mentre qui in cima, nel cortiletto dove s’alza per quasi 18 metri appare piccolino, un idolo bianco, quasi un dessert di ghiaccio vivo appena formato – ‘falso’ e ‘kitsch’ dice l’occidente, ovvero irreale e dolce, una creazione collettiva di buon auspicio, ai cui piedi la pooja chiama alla ‘comunione’, con l’iniziazione di ognuno, unto e segnato in fronte dal brahmino – al quale dà un’offerta libera. Allora si può ballare nel cerchio sacro, offrendo in tripudio la propria noce di cocco, e suonare, cantare, in responsorio al cantore.
India profonda cui è impossibile non partecipare, non appartenere – tanta è la grazia, l’innocenza infantile di questi riti, pellegrinaggi senza dolore, devozione senza fanatismo, comunità del momento, differenza senza separazione, gentilezza e gioco della festa senza tragedia, puro omaggio, ringraziamento al dio: un uomo che è divenuto Dio, essendogli riconosciuto un valore sociale fondativo: il principio, il pensiero e la pratica della postura meditativa… seduto o in piedi (Kayotsarga) la preghiera è qualcosa che si fa col corpo intero, una funzione biologica. Non un sacrificio cruento. Che si onori, in via di principio, qualcuno che con la sua “mite fermezza” è riuscito a liberarsi in vita (jivamukta), a divenire un illuminato che irradia energia – è un fondamento per la stabilità del sistema sociale indiano.
Sono uscito con le dita formicolanti, come dopo una seduta di meditazione o una sequenza di Tai Ji.
Forse quando nel Partenone c’era la statua di Athena Parthenos ricoperta d’oro, anche i greci ballavano, o alcuni di loro, secondo la democrazia stocastica da loro inventata. Forse è passato troppo tempo, di quel che era abbiamo solo gli scheletri, Aristenemi lo scultore del Bhaubali scolpì la statua nel 981, 1500 anni dopo. Ma ancora dopo un millennio gli indiani hanno saputo mantenere questi riti, per la loro felicità. Ancora per quanto ?
QUALCOSA DI BENE ANCORA
24 marzo 2012
‘L MAL DE’ FIORI
Sergio Fava enumera le figure di questo corpus barocco (controcanto anche alla scultura, dal Bernini a “Michelaccio l’Angelo”, al neoclassico “MinchioneWinckelmann”) – figure che sono poi quelle prosodiche di Bene “straniero alla sua lingua” (e al pubblico): sprezzatura stilnovista, ariostesca (o meglio, cervantina), maccheronica fierezza, acido corrosivo di Laforgue, eroismo rabelaisiano del ridicolo, virulenza comica, costante hölderliniana e campaniana. Sono le tonalità emotive, tipiche e popolari, qui disanimate e straniate in una gnostica “nostalgia delle cose che non furono mai”, nella “nolontà di non essere mai stati” – bordone andante un poco maestoso del poema. “Non mi ero mai imbattuto nella nostalgia delle cose che non furono mai” dice nell’ autointervista, ma il “da sempre mancato, il nomadismo” contamina tutto il poema come la “similvita”: dalla donna e l’amore (“cosa eri, tra cose”, “questo ch’è tuo non essere mai stata”, “Noi non ci apparteniamo. E’ il mal de’ fiori / Tutto sfiorisce in questo andar ch’è star / inavvenir / Tutto è passato senza incominciare”), all’eros stesso – la cui imperdonabile colpa è di essere anche Logos, pulsione coito-logica della copula, ciò che – dicendo è – produce l’orrore della maternità e “resurrezione” (nel senso di moltiplicazione della specie).
Una sintassi ossimorica màcina il flusso della natura in-animata dal dolore: “Vanito ‘n apparir Somiglia ‘l sole / in sorger tramontato”, “Di non morir si dole forse di / non essere quel fiore non mai stato”. Dove mai può esistere con-jugazione, e dove gli enjambement spezzano il ritmo della frase, la logica della voce – alla quale anziché darlo, tolgono il respiro. Carmelo Bene senza respiro ? Certo, come voce il cui fiato mai aderisce all’ordine emotivo, al senso “poetico” – ma asincrona e fuori campo va azzerando le differenze fra pensiero organico e minerale – parola pura nel suo stroppiarsi in “ricetta farmaceutica di controindicazioni” o in musicale impromptu – collane di perle, accordi e dissonanze alla Keith Jarrett. Bene ‘italianizza’ così lo s-parlarsi addosso fisiologico, chimico, ideologico della totalità dei corpi, svuotando l’inconscio rivendicare un’anima inesistente (“Come se si potesse essere autori di qualcosa !”), in una ‘naturale’ sfigurazione della lingua – cortocircuiti verbal-fonici o imprevisti smottamenti fra un idioletto e l’altro – e giunge a una ‘alchemica’ nigredo o combustione in cui il tantra orientale si assimila alla nostra pornografia, appagamento senza desiderio.
Contro la “ruminazione, digestione, fonazione e flatulenza di ogni arte poetica”, è “il Cordelcorp al di là del desiderio”, e questa voce “non tua non mia”. Quasi le stesse parole di Kerouac (“Nulla è mai avvenuto”) più che nihilismo declinano qui un neoartaudiano kamikaze culturale – eppure devono pure accadere versi come: “Niente ha fine se non fu”, “nel punto questo / il solo istante della vita”, “v’è inciso un al di là del dispiacere di che manca salute”. Vive la sanità soltanto dell’insania, un’eternità non dorata, ma in bianco e nero – che nei film è coloratissima apologia dei “cretini che vedono la Madonna e hanno ali improvvise” – l’impossibile nolontà mistica “d’essere il più gentile, il più cretino”. Trans-poesia ‘glocale’ più d’ogni altra forse destinata alla scomparsa, dicendo ciò che sempre più è, sarà, è stato – il mai avvenuto svanir dell’illusione.
NICOLA LICCIARDELLO (da Voci di trans-poesia dalle Americhe a Carmelo Bene, in “Italianistica”, Sao Paulo 2008
QUALCOSA DI BENE
24 marzo 2012
DANZA IL DOLORE A KALAKSHETRA
8 marzo 2012
DUKKHA Danza il dolore. KALAKSHETRA (Madras) 26 febbraio 2012.
Kathak di Parwati Dutta. Musica, flauto e voci dolcissime, Parwati non è snella, ma è leggera, quasi vaporosa, quanto solida nelle posture, sfumata nei mudra del volto, implacabile nel sorriso. Dichiara ogni sequenza prima al microfono, dettando il ritmo: DA DA GA’, Taketiketun Tata, DA DA GA’, TakeTaketiketun… poi esegue, ruota levitando, tornando e finendo la sequenza al beat assoluto – l’unisono, o l’ottava del beat del tablista – guardando fisso, in trionfo, lo spettatore. Continui applausi a scena aperta. I ritmi si fanno sempre più rapidi, di mezzo tono, di un quarto di tono, di un 27esimo… oppure asincroni, ora li esegue coi crotali alle caviglie, poi vola, svolge e riavvolge, coglie e offre, allontana e accetta, crea e dissolve, scrive, ringrazia, prega, ottiene, offre… soffre infine nella descrizione a parole, ma preciso il Da Da Gà – senza sforzo continua a esser Detto e Danzato il ritmo assoluto. Chiude con un ultimo DA – DA, quasi lento, è un canto di dukkha, di dolore. La chairwoman informerà che 5 giorni fa è morto il padre di Parwati, e questo lei ha danzato. Offrendo intero il suo dolore nella danza disciplina, trasfigurando così, bruciando il suo karma. Ciò che commuove non è il sentimento per il padre perso, bensì il modo del suo superamento: la bellezza della forma, l’intensità dell’esecuzione, l’Invisibile, il sacro che in lei ha vibrato. Come la sobrietà del congedo, con il premio simbolico (un libro e un piatto di frutta) ricevuto in commossa umiltà – il congedo di tutti, pubblico e artisti, in questi che non sono affatto “eventi” (come i nostri), ma puri atti di servizio, senz’ombra di mondanità o compiacimento (sponsors ignoti), pura celebrazione di chi ha ‘scritto’ nella storia dell’arte indiana. In occidente sarebbe inconcepibile, un Festival gratis ogni 4 anni (compleanno di Rukmini Devi il 29 febbraio), fosse Isadora Duncan o Pina Bausch: non solo abbiamo gli sponsors, cui non basta esserlo ma devono esibirlo, per una questione di potere – ma il pubblico deve pagare comunque, la finanza deve rifinanziarsi, e poi gratis vorrebe dire qualcosa che non ha valore.
La chairwoman prima, quindi io e pochi altri seguiamo Parwati per salutarla. “It was my duty to dance, a necessity”, ribadisce – “but so loving and purifing”, aggiungo. Talvolta organizzo serate di poesia e danza, le dico, se capita in Europa… Risponde che sì, viaggia, e mi dà il suo bigliettino.
L’ULTIMA SPIAGGIA COMUNE
13 febbraio 2012
In questa spiaggia è rigorosamente vietato qualsiasi tipo di droga: una jeep della polizia va su e giù a controllare. La jam session è interamente affidata ai convenuti, ogni pomeriggio al tramonto. La musica è autoprodotta con strumenti portati sul luogo. Il ‘rito’ raramente si protrae dopo ora di cena. La domanda è: fa piacere a chi guarda dall’Europa, almeno ‘sapere’ che una cosa così esiste, la comunità con-venuta, la comunità dei qualsiasi, senza provenienza, ma QUI, a creare il meglio di sè, l’evento-bene comune, grazie per l’energia ricevuta dal sole e dal mare, alleggerimento, celebrazione… POTETE VEDERE ?
MARIA ZAMBRANO – LA FIAMMA
11 gennaio 2012
Questa prima parte de LA FIAMMA, nella traduzione di Elémire Zolla (“Conoscenza religiosa” 1977, 4) fu dedicata da María Zambrano in morte della comune amica Vittoria-Cristina (Campo). Compare ora, nella diversa traduzione di Elena Laurenzi, in María Zambrano, Dell’Aurora, Marietti, Milano 2000. Ragioni fonosimboliche e ritmiche mi hanno fatto preferire la prima versione, da me incisa nel 1994.
LINDSAY KEMP – REVES DE LUMIERE 1997
7 gennaio 2012
REVES DE LUMIERE (Venezia 1997). I sogni sono anche incubi, delirii, fallimenti di un’età postuma e globale. Ma le mani di Kemp sempre tengono l’energia, i piedi tengono la terra, ‘sciando’ come nel teatro Noh, la testa ovale irradia consapevolezza. Il prana emanato conferisce la magia del movimento che sempre fluisce senz’angoli e in ogni direzione.
Kemp è il dolce eroe della non-parola (mai), dell’arcaico “sorriso degli dei” (Genet). Il suo canto inudibile è qui un inno nello strazio del cigno che affonda (Nuria Moreno), il volo d’Icaro (Nijinskij che vuol essere dio), o l’Angelo dalle immense ali che brucia (come le rovine da cui fugge l’Angelo di Benjamin) e lentamente si riconsegna alla terra. Leggi tutto…
POETA CONTRO NATURA
7 gennaio 2012
Nei Comizi d’amore (1965), Pasolini intervista anche Ungaretti su cosa pensa di un uomo che “va contro natura” (l’omosessuale), ma la risposta del poeta è spiazzante e terribilmente ‘vera’. Ogni uomo è diverso da un altro, risponde, e in primis il POETA, evidentemente inteso come ‘poieta’: chi costruisce aggredisce la natura. La natura dell’uomo è di distruggere la natura: diciamo la sua “seconda natura”. Ma non è possibile che si formi una ‘terza natura’ nell’uomo, tale che egli non sfasci la natura, ma soltanto con esse operi delle circoscritte trasformazioni ? Di tale possibilità hanno parlato tutti i grandi filosofi e mistici, e a questo limite si erano fermate, prima dell’invasione capitalistica, tutte le civiltà, piccole e grandi (incluse la cinese, l’indiana, la Nativamericana, etc)
MARIA ZAMBRANO – I BEATI
2 gennaio 2012
Nei primi anni 90 leggevo tutto di María Zambrano, era il suo tempo, il tempo della fine del suo esilio di 40 anni, e quello delle ultime opere, distillato di una vita di meditazioni, di “ragione poetica” come cifra della sua filosofia, giusto prima che finisse il millennio. Più ancora dei Chiari del bosco, mi colpì I Beati, una summa di distinzioni e connessioni fra le figure del “saggio”, del “santo” e del “beato”. C’è una tale pregnanza nella parola zambraniana (qui in bella traduzione di Carlo Ferrucci, Feltrinelli 1992), che la rende fragile e possente come fosse appena nata, e invece è l’ultimo stadio alchemico, dove sono consumate la tradizione classica, soprattutto stoica, con quella cristiana, soprattutto mistica. Los bienaventurados sono qualcosa di meno dei beati evangelici, ma forse aiutano a raffigurarli in qualcosa di più comune e terreno, a me ricordano i ‘matti’ scoperti dall’antipsichiatria negli anni 60, e anche gli artisti, i poeti beat, i sadhu indiani…
In quegli anni così decisi di leggere e registrare questi brani, perché tutto in occidente passa via con la moda, e invece così, su youtube, in questo àkasha o magazzino cosmico, tornano spero udibili e condivisibili. Non ho immagini plausibili dei beati, dei “poveri di spirito”, cioè completamente aperti allo spirito: ho dovuto usare foto di teatro, perché ormai solo il Teatro può trasmettere la Vita. Le mie fotografie scorrono comunque solo quale supporto tecnico alla voce, che a sua volta è solo un supporto della scrittura zambraniana.
FERLINGHETTI su DYLAN
1 gennaio 2012
AUGURI 2011-2012
19 dicembre 2011
TEATRO VALLE ROMA-ORCHESTRA MALANCIA
13 dicembre 2011
Al Teatro Valle occupato di Roma, 29 dicembre 2011, un momento magico di musica fino a notte inoltrata (dopo la Festa a Monicelli in piazza Madonna dei Monti) regalato dall’orchestra di fiati e bandoneons Malancia:
FESTA A MONICELLI-ROMA
13 dicembre 2011
29 novembre 2011. Candele sugli scaloni della fontana in piazza Madonna dei Monti, un cerchio di gente attorno ai fiati per Monicelli, una ‘squadra’ affigge la targa “PIAZZA MARIO MONICELLI – MUOIONO SOLO GLI STRONZI”, mentre i fiati intonano Pecura mia. Grande commozione e ironia insieme. Leggi tutto…
LA ROTTA DEL MONDO
13 dicembre 2011
Provo a condensare il mio intervento di 4 minuti (infine saltato) al ben organizzato Convegno del 9 dicembre “La via d’uscita” – anche se ci vorrebbe almeno un libro. Ho negli occhi il simultaneo volto raggiante di Angela Merkel a Bruxelles, e il capo inclinato di Rossana Rossanda a Firenze. Vincitrice la prima, vinta la seconda. Rossanda torna oggi sul Manifesto per “Tre riflessioni urgenti”, con l’eufemismo “riformista” di un “noi” erede della sinistra storica e interprete dei movimenti attuali: “colpire la finanza con una tassazione forte, colpire gli alti patrimoni, reintrodurre un controllo dei capitali in direzione opposta alla formula tedesca, ridare fiato agli organismi comunitari, ricondurre la Bce a quelli che dovrebbero essere i suoi fini, riformare un gruzzolo, oggi dovunque scomparso per la crescita. Crescita vuol dire occupazione”. Tutto questo è il desiderio di tanta popolazione onesta, ma non è certo riformismo, è il programma di un partito rivoluzionario – con nessuna possibilità di attuazione. Pura testimonianza, nella coscienza della sconfitta culturale prima che politica della sinistra, che non ha saputo leggere in tempo lo tsunami neoliberista. Com’era bello, vivo di lotte e obiettivi da raggiungere il tempo dei Trenta gloriosi (1945-1975) ! Poi si è scatenato qualcosa fuori da ogni controllo. Nemmeno la vincitrice di Bruxelles infatti, e con lei l’Europa e i governi del mondo sanno come prendere il toro per le corna. Suicida viene da molti analisti definito il patto fiscale europeo, l’ostinazione elitaria della Germania, la manovra recessiva Monti, la porta in faccia di Cameron, lo stampare moneta di Obama, il mancato accordo sulla riduzione dell’inquinamento a Durban. La sindrome di Tina (“non c’è alternativa”) è planetaria, vincitori e vinti, governi e popoli sembrano condividere la stessa impotenza.
Ma è davvero impossibile un’altra narrazione, un’altra immaginazione, un’altra “fede” ? La filosofia di Marx non era solo lotta di classe, era un orizzonte di trascendenza, una (buona) “fine della storia”. Ora la riduzione di ogni pensare al simbolo penitenziale del debito per il godimento (coatto) del trentennio precedente (Cristian Marazzi e Ida Dominijanni) “ci trasforma tutti in soggetti colpevoli”, che devono scontare. Ma un pensiero critico riconosce questi meccanismi, e potrebbe aiutare a risolvere le false alternative crescita/decrescita o democrazia rappresentativa/diretta – se fosse messo a contatto di gomito con esse. Uno dei problemi pervasivi oggi è non solo la contrapposizione identitaria di gruppi, ma la separazione dei problemi, l’assenza reciproca di ascolto fra teorici e politici, la poca biodiversità culturale. Bene Ginsborg con Landini, ma occorre osare di più. Perché non anche Tronti e la Dominijanni e qualcuno del no-tav ? Ogni volta ritrovo più solo l’instancabile Guido Viale, e meno ‘traducibile’ il suo sistema ecologico, la sua perfetta razionalità. Occorre sia il fegato che il cuore e il cervello, per liberarsi dalla paura, e dalla colpa dello sfruttamento capitalistico. Occorre chiedersi se la crisi dell’Europa sia dovuta ai macigni della sua razionalità, unico continente il cui “sacro” è la moneta stessa (vedi dossier su politica e religiosità in Liberazione di ieri), e il suo oro ariano. Si potrebbe scoprire che forse c’è una razionalità nelle sue scelte di fatto di decrescita – un deterrente all’immigrazione extracomunitaria – e intraprendere un altro cammino, fra natura e solidarietà planetaria.
Europa, Scilla …
24 novembre 2011
Europa, Scilla o Cariddi
Oggi non voglio parlare come uno dei 99% indignati (che persino i Presidenti dicono aver ragione). Vorrei scendere negli abissi del migliorismo tecnocratico, e rispondere a Barbara Spinelli (Repubblica 23 nov) che siamo fra Scilla, la Finanza e Cariddi, la Povertà planetaria. Sposterei così i termini del suo bellissimo articolo, che non esce dall’ideologia Europea, quella che ha origini lontane, nella stessa Grecia con Platone, cioè con la scissione insanabile fra Anima e corpo. Se la “democrazia” ateniese di allora è l’ideale riferimento per la migliore Europa Federale di oggi, non si esce da una Kultur prussiana, nel migliore dei casi weimariana (come Spinelli paventa), qualcosa di completamente inadeguato a rifondare un’Europa. L’Europa (compresa l’Italia) infatti non vuole ideologicamente rinunciare al suo stile ‘massonico’, mentre è già “fuori di sé”, all’interno dei G20 e di tutti gli altri, e tutti insieme all’interno di uno squilibrio planetario delle risorse. Per aiutare l’Europa a non rifare gli anni 30 e 40, occorre che essa si pensi nel mondo, che si confronti, che negozi valori e misure ecologiche nel contesto planetario. Eppure gli staterelli europei, per paura di perdere l’elettorato interno, non vogliono rinunciare alle loro “identità” nemmeno per fare gli Stati Uniti d’Europa, proprio come una Padania che snobba l’Italia.
Ma se devo essere ecumenico (come il governo Monti), voglio l’impossibile: il 99% e l’1% insieme, dai precari ai massoni, tutti credo non possiamo oggi avere altro compito che trasformare il modello di crescita fondato sullo sfruttamento delle risorse e del lavoro in un modello di sviluppo umano equilibrato. E’ difficile pensare che questo Parlamento, o il governo Monti, o le sinistre siano in grado di affrontare un tale mutamento di paradigma. Mentre il 99% è punito, perché senza rappresentanza. Il paradosso è che proprio i governi, la Bce etc stanno andando in tale ‘giusta’ direzione, con le misure restrittive che adottano di fatto accelerando quella Decrescita che affermano di non volere. Perciò ogni momento è kairos, favorevole, basta vincere la paura di perdere la “propria” (bloccata) identità e tuffarsi nel mondo, parlare, associarsi e organizzare i percorsi per le necessarie trasformazioni sociali e territoriali, per un Paesaggio vivibile.
JAMES HILLMAN – LA POTENZA DELL’IMMAGINAZIONE
3 novembre 2011
Dopo Steve Jobs, pioniere delle protesi comunicative nel terzo millennio, è andato via James Hillman.
Il messaggio “restate folli, restate affamati” del primo era forse già ‘incluso’ nel “fare Anima” di Hillman, che ha mostrato quasi da sciamano la resistenza delle immagini archetipe nella nostra anima. Leggi tutto…
FASTIDIOSE UTOPIE
31 ottobre 2011
FASTIDIOSE UTOPIE
L’articolo di Paolo Cacciari Come si esce dall’economia del debito (Manifesto di sabato) illumina una sua ‘performance’ al seminario di Ferrara (25 settembre), in cui invocava l’unica cosa che manca alla sinistra: “una soggettività politica che abbia il coraggio civile e intellettuale di prospettare un sistema di valori etici e di regole sociali all’altezza dell’odierna crisi di civiltà”. L’unico modo di uscire dal debito (agli investitori) è non pagarlo, perché esso è inestinguibile – così come l’unico modo di uscire da un ricatto è dire apertamente la verità. Se ognuno di noi nasce con un debito di 30.000 €, l’unico modo di liberarsene è non accettarlo, infatti tecnicamente non è vero. Ma proviamo a vedere la cosa dal punto di vista della finanza. Se è vero (molte analisi concordano) che le misure imposte dalla Bce indebiteranno maggiormente gli stati cui essa concede prestiti, ci si può chiedere perché mai l’UE voglia il suo stesso declino – o è la Germania che vuole gli altri stati indebitati con lei ? O non da sola, sta negoziando con Cina India Brasile una cogestione del debito internazionale ? Ma al di là di questi rapporti, è possibile che la Bce, il Fondo Monetario etc non abbiano capito che un’economia fondata interamente sul debito e sull’ipoteca del futuro non può proseguire all’infinito, perché si allontana troppo dall’ecologia delle risorse (lavorative e naturali) ? O siamo noi, precari di un paese precario, a non aver capito che non è affatto così ? E cioè che questa non è affatto la crisi definitiva del capitalismo, e anzi i suoi settori di punta come bioingegneria, ricerca atomica e spaziale sono lanciatissimi e su di essi convergono i maggiori investimenti – il resto, produzione, consumi, umanità non importano. Se così fosse, il no dei precari e dei giovani occupanti Wall street o la Puerta del Sol sarebbe più che un bene comune un “male comune” – difficile comunque da curare. Se invece la Bce, l’Europa e tutti non ci credono, ma fingono di credere che il sistema del debito possa andare avanti indefinitamente, perché non possono dichiarare il crollo del paradigma metafisico e biopolitico (tutti i cittadini devono a priori essere indebitati) – allora le “fastidiose utopie” (ironizza Cacciari) hanno almeno un’altrettanta ragion d’essere: uscire dal Pil “mettendo la cura e la fruizione dei beni comuni al centro della nostra idea di società”. Ma questo non può essere frutto di una mera “soggettività”, Cacciari lo sa, ma conclude: “è urgente che qualcuno impartisca nuove istruzioni all’economia”. Qualcuno, o forse uno spirito più “oggettivo”, una necessità storica più forte delle password finanziarie – che bloccano i flussi in nome del profitto – la necessità di riconoscere nella donazione reciproca la vera linfa sociale – suggerisce Pierangelo Sequeri in Bene comune e dignità umana.
JOSE’ LEZAMA LIMA: dall’ex sito “lezama.it”
25 ottobre 2011
OCCUPIAMOCI MEGLIO DI NOI
16 ottobre 2011
OCCUPIAMOCI DI NOI
Non so se dire “purtroppo” non c’ero: lo sbandamento e la frustrazione delle centinaia di migliaia di “pacifici” porta a non rimpiangere di non esserci stato. Certo qualcosa di forte avrei vissuto di persona, ma l’interpretazione dell’insieme ? Ho visto tutti i filmati disponibili, che non sono la realtà, ma la rappresentazione dominante della realtà, quella mediatica politica, incentrata sugli episodi di violenza. Prima che interrogarsi sulla loro origine, diciamo che la loro sovraesposizione mediatica è un segno preciso della direzione in cui va il “sistema Italia”. Il Manifesto è una lodevole eccezione, Parlato ne accenna appena: “inevitabile” che accadessero (con il livello di disoccupazione galoppante), aggiungendo “è un bene, è istruttivo” che siano avvenuti. D’accordo. Ma quanti decenni di (auto)istruzione ci vogliono perché un movimento cresca abbastanza da creare gli strumenti immunitari necessari al suo consolidamento propositivo ? Qualcuno su facebook ha evocato l’efficienza dei vecchi servizi d’ordine del PC: ma non era solo quello, era un intero sistema simbolico, un ordine razionale che oggi non si danno – gli Indignati devono ricostruirsene uno. Ma non è possibile elaborare l’indignazione in proposte politiche nel corso d’un corteo – che, nel caso specifico, mi è parso ricco nel numero e nel “potenziale” ma sguarnito, torrenziale, povero di teatralizzazione. Non vorrei essere ingeneroso, ma Berlino, Londra, Bruxelles, e soprattutto la lunga esperienza di Puerta del sol e l’ultima arrivata, quella di Zuccotti Park (Occupy Wall Street), hanno mostrato una maturità organizzativa, gestionale, politica tuttora impraticate in Italia. In un semplice corteo non si decolonizzano vent’anni d’immaginario berlusconiano. Le due cose importanti che Naomi Klein ha detto al Parco: che il movimento per crescere deve mettere radici in un luogo e che decisivo è “come ci si tratta l’un l’altro”. Ecco, qui in Italia ci insultiamo, e a volte magari non vediamo l’ora di fare la manifestazione per tornarcene ai nostri ‘affari’…per cui non possiamo occupare, cioè abitare insieme un luogo, come al Cairo, come a Madrid, per riflettere, elaborare, produrre modelli cooperativi. Vorrei essere subito smentito (per esempio c’è il Teatro Valle occupato), e mi spiego: non è che manchi la generosità e l’entusiasmo, mancano la pazienza, la resistenza, il coordinamento, la radicalità. Sono vizi antichi del movimento italiano, e senza un’autoeducazione implacabile e condivisa non si potrà costruire il primo dei beni comuni, la fiducia nella forza politica collettiva.
QUALE CLASSE RIVOLUZIONARIA ?
8 settembre 2011
MA DOV’E’ LA CLASSE RIVOLUZIONARIA ?
Compagni, scusate – sono un pensionato da novecento euro al mese, proprietario dell’unica, modesta casa dove abito in campagna – posso dire “compagni” ? Lo so, a tanti non è dato nemmeno questo, non mi lamento della mia condizione, perché l’ho scelta. Esodo da qualsiasi carriera e dalla città – rimanendo uomo di lettere, perché è difficile cambiare davvero vita (a 65 anni col diabete). A quelli che sono rimasti in città – senza voce, senza ruolo, senza comunità (e sono milioni) dico “compagni”, perché a tutti la storia ha riservato un’analoga sorte di esilio. Cos’altro possiamo (dobbiamo) manifestare se non la nostra impotenza ? Quali altre manifestazioni, indignazioni, occupazioni, irruzioni sono più autentiche e politicamente più incisive ? Si dice Sbilanciamoci, si dice uniticontrolacrisi, si dice rete@sinistra, viola o arancione: uno dei problemi per la costruzione dei beni comuni è proprio la frammentazione, l’autoreferenzialità di gruppi sempre più “individui”. L’esilio è comune ai singoli, ma questi non formano una classe – nonostante i bei trattati di Negri a Agamben – se non nell’effimera gioia dei cortei.
Compagni, avevo studiato e mi era parso di capire che i rapporti di produzione cambiano quando sorgono nuove forze produttive, gestite da una nuova classe protagonista. Ora, o pensiamo che (già negli ultimi tre decenni) una nuova forza produttiva c’è, e si chiama finanza internazionale, che produce denaro per 10 volte la ricchezza mondiale (sempre misurata in Pil). Oppure pensiamo che no, questa finanza padrona degli stati è solo una malattia del capitalismo, che si deve curare – non con manovre depressive, ma con misure per un’ulteriore “crescita” del capitalismo, proporzionata all’occupazione, cioè al lavoro. Ed ecco tutte le ricette keynesiane da sinistra, che talvolta giungono a denunciare le manovre della Bce – le quali appaiono, paradossalmente, esse sì orientate a una “decrescita” ! In tutta questa entropia, se non vogliamo credere alla finanza come classe rivoluzionaria, ciò che è invisibile è proprio un’altra classe, che incarni un nuovo modo di produzione. Forse c’è, Guido Viale non si stanca di evocare sinergie e sperimentazioni orizzontali, ma è una classe che non si smarca dal mercato, non si staglia come alternativa – nei beni prodotti, nel modo di produrli, nel modo di venderli. Dovremmo scovarla, imputarla alla trasformazione, trasmettere esempi ecologici, oltre ad essere creativi nel web. Dovrà cambiare il vocabolario, e quindi il pensiero: nell’immaginario anche dei più indignati di noi è assente l’inoperosità, l’ozio in comune, la poesia – cioè la costituzione dell’uomo, diceva José Martí.
IL CIELO APERTO DEL CORPO – Fabia Ghenzovich
4 settembre 2011
ALL’ASCOLTO DEL CORPO PROFONDO
“Questo libro è corpo vivo – scrive Chiara De Luca presentandolo (Kolibris, Bologna 2011) – che di pagina in pagina si schiude, chiarisce e svela nella pace del foglio bianco, restando vibrante e vivo sul finale aperto dell’ ‘Io inverso’, del corpo in versi”. Leggi tutto…
VERSO L’IMPLOSIONE
12 agosto 2011
Mancano persino le parole per un commento sulla crisi d’Europa, del capitalismo occidentale e mondiale, e sulla disperazione in cui interi popoli vengono abbandonati. Mancano le parole e abbondano le analisi, le ricette ma non la terapia – perché è troppo tardi, perché occorrerebbero immediate azioni (non quelle di Borsa), cioè decisioni politiche comunitarie radicali, a tutti i livelli. Ma nessuno ha il coraggio di cambiare la “rotta” d’Europa, come l’ha chiamata con efficacia Rossanda. I terremoti finanziari sono il brodo naturale per “i mercati”, ossia gli speculatori, gli “usurai” del debito, come scrive Tonino Perna – mentre ai politici il sentirsi tremare la terra sotto i piedi rinforza le risposte autoritarie, perché non c’è più il tempo di “fare filosofia”, si salvi chi può. Può far sorridere, se non fosse tragica, la retorica di chi si chiede come mai è potuto succedere un nazismo, quella volta, in Germania. Ma almeno di una cosa ci si può rallegrare: il capitalismo non ha più nemmeno i soldi per fare la guerra. Oggi Asor Rosa torna a gettare l’allarme, con qualche ironia verificando la sua prognosi su “un governo del Presidente”, che però è andato nella direzione opposta a quella da lui auspicata. Ma il Presidente serve solo a rassicurare i mercati sul proseguimento della rotta finanziaria. E’ come se in un affollato oceano navi, barche e barchette avessero tutte il timone bloccato in un’unica direzione, il neoliberismo, il massimo profitto privato – come se esistesse un luogo fisico dove realizzarlo. Un’idea folle, che non esisteva prima di Colombo. Le navi e barchette sono destinate ad andare in secca, se viene prosciugato il mare, cioè il benessere collettivo. Per contrastare tutto questo, per sbloccare quel timone e imboccare un’altra direzione, non basta ammutinarsi, occorre semplicemente prepararsi a una Rivoluzione, a un’altra meta – nulla è ancora successo, scriveva Kafka, questo non è più il tempo di aspettative, ma dell’attesa (dell’implosione), aggiuge Gianni Celati. Una rivoluzione comunitaria, informatica ed ecologica, forse. Che riparta da una gestione condivisa del territorio.
DECRESCITA O EVOLUZIONE ?
18 giugno 2011
DECRESCITA, TRANS-CRESCENZA, EVOLUZIONE
Metafore fra neoliberismo e gestione partecipata dei beni comuni
Il libero esercizio di critica serve a verificare i concetti e le metafore, cioè le parole-chiave che in un con-testo hanno valore vettoriale, dinamico, trasformativo. Ma Tiziano Cavalieri (Manifesto sabato 18) rileva “contraddizioni” nell’articolo di Viale (Manifesto giovedì 16), mi pare mostrando di non averne colto la portata. Vedo invece coerente alla direzione di Viale la parola “trascrescenza” introdotta da Ugo Oliveri (lo stesso sabato), a proposito della nuova gestione del comune di Napoli. Scriverei e direi “trans-crescenza”, perché anche il suono e il senso sono importanti. Un crescere che trasforma chi cresce, un che di biologico e anche simbolico, che riguarda il lavoro quale bene comune. Contro Viale, che nel suo articolo rifiuta il paradigma della “decrescita” in quanto “ambiguo, speculare a quanto ci viene presentato dagli economisti mainstream”, polemizza Paolo Cacciari (sullo stesso Manifesto di sabato), ribadendone la necessità in senso macroeconomico ed etico. Ma è proprio questo orizzonte del ragionamento che la visione di Viale intende superare, già nella sua formidabile invettiva e sfida alla logica finanziaria che strangola ora la Grecia e domani l’Europa: “il problema è se al passaggio obbligato del default si arriverà dopo aver spolpato lavoratori e popolo di tutto ciò che hanno conquistato nel secolo scorso e aver svenduto alla finanza internazionale tutto il vendibile…oppure se la dichiarazione d’insolvibilità arriverà prima, perché la mobilitazione popolare e il timore della sua moltiplicazione in molti altri paesi avrà imposto al governo greco e all’Unione europea un cambio di rotta”. Quindi fa l’esempio dell’Argentina, dove “lavoratori e comunità hanno preso in mano il destino di molte aziende”. Non perché essi siano in sé migliori, più eguali, sobri e virtuosi degli speculatori finanziari, ma perché, abbattendosi prima su di essi la scure economica, trovino la via d’uscita responsabile, apripista per gli altri. Facendo, come si dice, di necessità virtù, non di virtù necessità (che sembra la linea Latouche-Cacciari). La “conversione ecologica” di Viale è difficile da com-prendere, proprio perché argomenta col massimo raggio possibile l’utopia concreta dei nostri giorni, descrivendone la complessità di articolazioni, a partire da cittadinanza attiva e amministrazione locale (come suo referente più prossimo) fino alle scelte di governo e di governance mondiale. Autonomia energetica, gestione del territorio, agricoltura e riciclo rifiuti locali, implicano nuova ricerca ed educazione (“ciclo materiale e simbolico degli oggetti”), mobilità e consumi condivisi, etc. Non c’è campo in cui non si eserciteranno le virtù, personali e collettive, se il “pensare globalmente” è ecologico (non globale capitalistico), cioè quello del ricostruire, di far-bene-in-comune. E qui voglio ricordare il ruolo ‘costituente’ della poesia, dalla creazione di slogan di lotta alla memoria e alla rifondazione della comunità. Ne parleremo negli incontri dal 23 giugno al 24 luglio nell’ambito di una mostra fotografica sulla poesia performativa a Padova, S.Gaetano (info 3661565099).
FIUME DI POESIA A PADOVA
17 giugno 2011
Il Fiume di Poesia sta finalmente arrivando a Padova, lasciamolo scorrere
Ecco il calendario degli eventi, a partire dal 23 giugno: Leggi tutto…
JENNIFER CABRERA hechicera de La Palabra a la Giudecca
29 Maggio 2011
JENNIFER CABRERA FERNANDEZ hechicera alla Giudecca
L’ARCA SELVATICA
29 Maggio 2011
E come recensire L’ARCA SELVATICA della cara ‘nemica’ Ferni Leggi tutto…
DALL’ALTO E DAL BASSO
19 aprile 2011
DALL’ALTO E DAL BASSO
Sulla contestata ‘provocazione’ di Alberto Asor Rosa (Manifesto 13 aprile, rincarata oggi), alcune riflessioni. La prima di metodo: non si può dubitare, non solo della buona fede ma delle convinzioni democratiche di Asor Rosa, occorre allora cercare di capire meglio il suo ragionamento. Che, come sempre, segue la rigorosa logica del “se è vero che”. Se è vero lo sgretolamento della Costituzione, l’asservimento parlamentare e mediatico, il dilagare della corruzione, la delegittimazione della magistratura e della scuola pubblica (per non parlare della contrattazione nazionale del lavoro) – allora stiamo assistendo all’avanzare di una dittatura. Pervasiva, totalitaria, irreversibile: un sistema di potere fondato sulla legge della giungla, o meglio della finanza più forte, privata e armata. Un sistema che andrebbe anche oltre il consenso ‘popolare’ alla persona di Berlusconi. Un potere in qualche modo regale o imperiale, osserva Scalfari. E Asor Rosa non intende salvarsi la coscienza, evocando la stanchezza di Vittorio Emanuele e di Hinderburg, che in anni di crisi aprirono al fascismo e al nazismo – piuttosto rileva che “non c’è più tempo”, perché siamo come a quel tempo. E allora, se è anche vero che “non sempre le masse hanno ragione, ma non c’è ragione rivoluzionaria che non passi attraverso le masse” – come ricorda oggi Loris Campetti nella recensione alla Riconversione ecologica di Guido Viale – Asor Rosa non sta negando il valore delle lotte sociali presenti, anzi ne sta confermando la necessità: dice solo che l’indignazione non basta, e che la Sinistra non ha un programma. E se non c’è più tempo nemmeno di chiedersi perché, egli invoca una sorta di contro-golpe, il sussulto di uno stato illuminato, più forte in quanto in grado di anticiparlo. Senza nominarlo, e senza chiedersi perché il presidente Napolitano abbia nel novembre scorso concesso a Berlusconi un mese di tempo per difendersi dalla sfiducia, ora credo sia rivolta a lui l’invocazione di Asor Rosa. Un Presidente della Rapubblica che per saggezza e prudenza gode di un’enorme fiducia, e l’unico a poter decidere se continuare un logoramento in trincea o agire, sciogliendo le camere. Circola già nel web una petizione in questo senso (http://www.petizionepubblica.it/?pi=P2011N8898).
Ma certo il Presidente, come tutti noi, attende un segno, o la concretezza di un sogno: che so, Montezemolo che produce biciclette elettriche sui modelli di Leonardo, o un ministro che scriva un libro sul cinema.
https://nicolalicciardello.wordpress.com
NO alla “no fly zone”
10 marzo 2011
E’ urgente manifestare opposizione alla “no fly zone” in corso di approvazione da parte ONU, NATO, UE, o solo Usa e Inghilterra: a dispetto del suono soave (di zanzara) la NO FLY ZONE non è che l’INIZIO DI UNA GUERRA MONDIALE NEL CUORE DEL MEDITERRANEO, a pochi km dalla Sicilia, con conseguenze (im)prevedibili di: (centinaia, migliaia ?) uccisi per errore da fuoco amico, coinvolgimento di potenze militari mediorientali, iraniane, etc, rialzo ulteriore del prezzo del petrolio, embarghi, repressioni ai movimenti di pace e democrazia, e chi più ne ha più ne metta.
QUESTO E’ UN APPELLO A CHI (SINGOLI, ASSOCIAZIONI, PARTITI..) E’ CONTRARIO A QUESTA CRISI BELLICA, DI CUI A GUADAGNARCI PUO’ ESSERE SOLTANTO CHI HA GIA’ SCATENATO LA CRISI FINANZIARIA.
WESTERN CRIMES VS. INTERNET FREEDOM
26 febbraio 2011
Sì, i crimini italiani, europei, americani, cinesi etc. sono tuttora infiniti, a cominciare dalla vendita di armi ai dittatori passati e presenti. Tutti questi crimini sono dovuti alla necessità capitalistica di sfruttamento di MATERIE PRIME e MANODOPERA a più basso costo nei paesi che un tempo si chiamavano “in via di sviluppo”. Questo “sviluppo” c’è ormai in molte aree, e soprattutto c’è INTERNET, che virtualmente ‘azzera’ le differenze tra paesi industrializzati e non. Internet che permette così ai giovani di ‘saltare’ le frontiere della comunicazione, della informazione, della conoscenza, della mobilitazione. In una parola, di accelerare o attivare processi di formazione delle decisioni collettive, o almeno del peso della loro voce nello scenario politico, pur sempre controllato dai governi.
OBAMA, PLEASE, NO WAR
25 febbraio 2011
Concordo con i molti interventi che propongono corridoi umanitari, aiuti e soccorsi.
NON condivido proposte MILITARI di qualsiasi tipo, per quanto “umanitarie” si possano spacciare.
Non condivido nemmeno i giudizi di “condanna” per i dittatori, come se noi tutti fossimo giudici di un Tribunale Internazionale per i crimini contro l’umanità. L’occidente si lavi prima di tutti i suoi crimini e genocidi.
Mi piacerebbe – piuttosto che assistere alle geremiadi leghiste (razziste, etc) per la “minaccia” delle orde di profughi – mi piacerebbe che ‘giovani’ e auspicabili democrazie del Maghreb chiedessero loro di integrarsi in l’Europa, così come fa la Turchia. Questo risolverebbe una serie di problemi economici e geopolitici di grande momento. Ci penso perché, nonostante le differenze che sussistono fra Germania occidentale ed ex DDR, l’unificazione tedesca è un fatto acquisito senza troppe lacrime.
QUALE SESSO NEL CAPITALISMO GLOBALE ?
13 febbraio 2011
13 febbraio 2011