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ESOTERISMO fra AVANGUARDIA e GLOBALIZZAZIONE: POUND ELIOT YEATS

22 agosto 2019

ESOTERISMO fra AVANGUARDIA e GLOBALIZZAZIONE : POUND ELIOT YEATS

di Nicola Licciardello

 

SOMMARIO

I.Fragments of the world – II.Flusso di coscienza – III.Arte esoterica e sociale – IV.Poesia quantistica – V.Il Dante di Pound – VI.Pensare come un saggio – parlare come il popolo: la magia irlandese di W.B.Yeats – VII.Thomas Stearns Eliot: la musica del metodo mitico – VIII.L’impossibile alchimia de La Terra Desolata – IX.Quatuor pour la fin du temps: la Tradizione nei Quattro Quartetti – IX b.Tempo ed Eternità – IX c.Teologia Negativa – IX d.La Storia – X.Conclusione.

I. Fragments of the world

Artefici del modernismo in poesia, rivoluzionari eredi del simbolismo ‘800 di Blake e YEATS E ELIOTBaudelaire, legati fra loro da collaborazione e amicizia, i premi nobel Eliot, Yeats e Pound (candidato poi scartato perché fascista) sono una ‘trimurti’ esplosiva, come in pittura Kandinskij, Kokoschka e Picasso, in musica Strawinsky[1], Schönberg e Debussy, in filosofia Nietzsche, Bergson e Wittgenstein, in fisica Boltzmann, Heisenberg ed Einstein… Sono gli attori ben consapevoli della faglia linguistica globale apertasi nella storia dell’Occidente all’inizio del Novecento e intorno alla Prima Guerra mondiale – e di essi tuttora usiamo  le stimmate di pensiero. “Ezra Pound and T.S. Eliot fighting in the captain’s tower” (“litigano nella torre del capitano”) canta infatti Bob Dylan in Desolation Row 1965. Ezra Pound è l’attore americano che calamita in Europa il mutamento di prospettiva della poesia, la sua consapevolezza ‘imperiale’: la sua poesia mette fra parentesi il soggetto, avendo come oggetto, tema e fine la Storia mondiale. E’ una poesia della Storia, l’intera storia dell’umanità. Un progetto ambiziosissimo, virtualmente unitario come quello di Dante sette secoli prima: “Pound ci stupisce perché sembra aver pensato prima di noi quel che noi ora pensiamo su Dante: e invece quel che oggi noi pensiamo nasce spesso dalle sue idee” dichiarano i curatori del recente Dante di Pound[2]. Poesia della storia è anche poesia della poesia: se quell’ambiziosissimo progetto naufraga nell’impossibilità di raccogliere tutti i frammenti delle diverse civiltà che il suo stesso vortice va spezzando ­– “These fragments you have shelved (shored)”, “Questi frammenti hai dal naufragio… / (scaffalati)” traduce dal Canto VIII lo stesso Pound se il naufragio è il destino che il poeta stesso ‘rinforza’, allora egli non è ancora alla fine, non è l’Apocalisse. Quattro decenni più tardi, all’uscita dal manicomio, Pound infatti ritorna su quei versi (Canto CX), non vi è quindi ‘dissoluzione del soggetto’: anzi, come già su “The New Age” stigmatizzava l’usura del lavoro e dell’arte invocando l’uomo artigiano – come allora, l’io ha la missione essenziale di ricordarlo. Fra le cose più alte da lui scritte è l’ LXXXI (Canti pisani): “Ciò che sai davvero amare rimane/ il resto è scoria/ Ciò che sai amare è il tuo vero retaggio/ Ciò che sai amare non ti sarà strappato/…/ Deponi la tua vanità, non è l’uomo/ che ha fatto il coraggio, o l’ordine o la grazia/

Ed è per questa verità che il suo progetto comunque trionfa nell’impresa di inclusione e omologazione di tutti in lingua anglosassone, quale segno del destino: Oppenheimer e Fermi costruiranno l’atomica in inglese (a Los Alamos), Strawinsky e Thomas Mann parleranno inglese (a Los Angeles), lo stesso Yeats dovrà presentare in inglese le fiabe dei suoi “piccoli uomini” elfi irlandesi. Pound è straordinariamente abile: traduce in angloamericano gl’ideogrammi cinesi (non i mistici taoisti, ma la vedova di Ernest Fenollosa gli offre il teatro giapponese Nō) e quando si rende conto che è impossibile li include come miniature nell’assemblaggio dei Cantos (quasi a citare i Calligrammi di Apollinaire). E anche perché la sua metapoetica è intimamente globale, non può risaltarvi la mistica indiana, mentre il suo ‘allievo’ della Desolata Terra Eliot, nella chiusa del suo poema invocherà la pace con le parole sanscrite Datta. Dayadvham. Dāmyata/ Shantih shantih shantih, così estranee alla tragedia europea che sta cercando di esorcizzare.

II. Flusso di Coscienza

Ma quella tragedia non è facilmente esorcizzabile: si manifesta ad ogni livello e in ogni campo, perché è l’abisso stesso, il “buco nero” apertosi nella coscienza europea. Quel “trattare direttamente la cosa come uno scultore”, da Pound predicato nell’Imagismo, e quell’idea dell’immagine come apparizione esploderanno nell’archetipico Vortice della simultaneità, per rispondere al futurismo di Marinetti. Ma se la vera poesia è “l’unità vivente di tutte le poesie mai scritte”(com’egli propone), e se “tutto il tempo è eternamente presente, allora tutto il tempo è irredimibile” echeggera’ Thomas Stearns Eliot all’inizio del I Quartetto (Burnt Norton). Eppure “ci voltiamo addietro, noi artisti – scrive Pound, recensendo negli anni ‘10 una conferenza alla Quest Society di Londra (cui aderivano i premi nobel Tagore, Yeats e il cabalista Gershom Scholem) – verso i poteri dell’aria, gli spiriti dei nostri avi, eredi degli stregoni e dei vudu …attraverso di loro governeremo ancora !” Certo, se anche Shelley (come un tempo Novalis) aveva affermato che “i poeti sono gli ignoti governatori del mondo”, c’è qualcosa di piu’ profondo delle forme letterali e materiali, qualcosa di trasversale e invisibile, che influenza e informa la società umana: l’inconscio collettivo, diceva Jung – il quale proprio in quegli anni, separandosi dal pansessualismo freudiano, andava elaborando la sua visione degli archetipi. Ma nello stesso individuo, la memoria profonda è tutta intera e sempre presente, afferma Henri Bergson, altro Nobel di cui il giovane Pound frequenta le conferenze a Londra e le lezioni a Parigi, e cioè la coscienza è un flusso, che può ben risultare “creativo” (l’Evolution créatrice), come dimostrerà James Joyce, più tardi da Pound chiamato e sostenuto a Parigi.

III. Arte esoterica e sociale

Ed è proprio questa moderna coscienza del flusso, con l’accelerazione del XX secolo, a spingere le avanguardie artistico-letterarie verso un esoterismo[3] possibilmente in armonia col socialismo. Demetres Tryphonopoulos[4] fa risalire l’interesse del giovane Pound all’occulto all’incontro (1903-4) con la sua ‘Beatrice’, teosofa e musicista Katherine R. Heyman, seguace di Alexander Scriabin[5]. A Londra Pound aderirà al Social Credit del maggiore Clifford Hugh Douglas, ma conoscerà anche la Golden Dawn, in cui convergono l’esoterismo di Gurdjeff e il socialismo dei Fabians. E “The New Age”, guidata dall’iperattivo Samuel Liddell McGregor-Mathers, sposo della carismatica Moina Bergson (sorella del filosofo) e traduttore di Kabbalah Unveiled, non fu soltanto la rivista di Alfred Richard Orage (socialismo delle gilde), cui Pound collaborò per una generazione, ma 50 anni dopo segnerà l’inizio della “Nuova Età dell’Acquario” con la teosofa Alice Bailey: la sigla infatti riapparirà nel riflusso dei “favolosi anni ’60” (i Beatles).  Al “The New Age” di Orage collaborarono attivisti di una possibile “terza via” fra socialismo sovietico e liberalismo occidentale: Dimitrije Mitrinovic fonderà il movimento New Britain, che prevedeva le Gilde, il Credito sociale e assistenziale, e finanche una federazione europea nel “triplice Commonwealth” di Rudolf Steiner. Ecco dunque le origini del fascismo poundiano.

Non sorprende allora il rapporto quasi organico fra Futurismo ed esoterismo[6], con Filippo Tommaso Marinetti presidente del Circolo Occultistico di Milano (di cui riporta le sedute spiritiche sulla rivista “Senza Veli”), il “divisionista” Gaetano Previati accreditato al Salon de la Rose+Croix, Umberto Boccioni e Gino Severini seguaci della “Quarta Dimensione” di Ouspensky, Giacomo Balla con Fortunato Depero, autori de La ricostruzione futurista dell’universo (“Daremo scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile”) e nel cui atelier si forma Julius Evola… Carlo Carrà ed Enrico Prampolini, Ardengo Soffici, Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini (fondatore del periodico “L’Anima”): le famose riviste fiorentine “Leonardo”, Lacerba”, “La Voce” tutte impegnate a promuovere una rivoluzione interiore.

IV. Poesia quantistica

Sullo scorcio finale del secondo millennio il Modernismo verrà storicizzato: nel 1997 il comparatista Daniel Albright pubblica Quantum Poetics: Yeats, Pound, Eliot, and the Science of Modernism.[7] Come nella fisica coeva ai poeti si era affermata la nozione dei quanti di energia, o natura ‘granulosa’ della luce (i fotoni) piuttosto che ondulatoria, così si può parlare di una Poetica Quantica: “Esiste un Pre-Testo, un lungo fiume d’immagini, sculture vive oppure oggetti trascendentali, spettri che cercano di venire alla luce...” Esiste poi il Testo e il Post-Testo. Il significato di una poesia sta nei connettivi elementi più piccoli, ma “il simbolo, l’immagine, il vortice esistono prima che cominci il testo…prima che il poeta sia nato !” I tre poeti modernisti vengono quindi assegnati a una dominante ‘quantica’: Yeats sarebbe un poeta delle “onde”, Pound delle “particelle”, Eliot ancora delle “onde”.[8] Niels Bohr sperava che le metafore servissero a mitigare la progressiva intraducibilità fra gli stessi scienziati. Ed ecco una delle metafore più famose: “Può il batter d’ali di una farfalla in Brasile provocare un tornado in Texas?“. L’intrigante titolo di una conferenza di Edward Lorenz nel 1972 diventa la metafora dell’effetto farfalla[9], riusata in un numero incalcolabile di film, romanzi e letteratura scientifica. L’effetto farfalla è giustamente popolare per le implicazioni teoriche (e pratiche) sull’onnipresenza del caos e della imprevedibilità nel mondo reale. E per esempio, il Finnegan’s Wake di Joyce è un vivaio di imprevedibilità lessicali, da uno dei suoi giochi di parole, “Three quarks for Muster Mark” ha origine la parola e particella quark. Sulle straordinarie proprietà del vuoto, scoperte da Paul Dirac già nel 1928, ecco Jim Al-Khalili[10] uscirsene con l’elegante formula “il vuoto è vivo”: infatti, non è propriamente ‘vuoto’, perché vi pullulano microparticelle di segno opposto, che si annichilano continuamente scontrandosi, mentre altre ne sorgono ­– processo forse immaginato da Eraclito, certamente dal Buddha, che lo definisce shunyata, ‘vuotezza’.

V. Il Dante di Pound

E’ vero che certi Cantos di Pound possono a volte apparire patchwork polifonici alla John Cage, ma vi è un costante, interno filo rosso: la sicurezza, l’energia dell’uomo Ezra, la sua generosità e dirittura morale, l’intento di giustizia che innerva il suo continuo, dantesco giudicare i vivi e i morti.[11] Giustamente ritiene sue alcune riscoperte essenziali della lingua di Dante e dei Trovatori, perché unico è il suo rapporto con l’Italia e la sua lingua. E’ così conquistato dall’italiano in cui nel ‘45 scrive i Canti LXXII e LXXIII, i quali infatti non sono semplice racconto, ma riprendono la formula trobadorica della Pastorella: “…Era una contadinella/ Un po’ tozza ma bella/ ch’aveva a braccio due tedeschi/ E cantava,/ Cantava amore/…/ Sfidava la morte/ Conquistò la sorte/… Mentre la nota di umiltà che traspare negli ultimi Drafts & Fragments – il CXVI conclude: “Ammettere l’errore senza perdere il giusto:/ Carità ho avuto talvolta,/ Non so farla scorrere./ Un po’ di luce, come un barlume / ci riporti allo splendore” – è in fondo confessione e richiesta di perdono per non aver saputo scrivere quel paradiso terrestre che lo avrebbe elevato a Dante. E allora l’intervista da ottantatreenne concessa a Pasolini, pochi anni prima della scomparsa, è davvero un passaggio di testimone, a un figlio ‘degenere’ (comunista e omosessuale), ma pur poeta, figlio e intelligenza del tempo. Naturalmente il riconoscimento è reciproco: Pier Paolo, ricordandogli il “patto” poetico che da giovane Pound aveva rivolto a Whitman (omosessuale), cerca e ottiene il suo riconoscimento da parte di un ‘padre’ fascista (com’era stato il suo).[12] Entrambi accomunati da una lotta senza quartiere al capitalismo omologante, una lotta pagata l’uno col confino, l’altro con la morte. Ma Pound aveva affermato: “se un uomo non e’ disposto a morire per la sua idea, o questa o lui non vale niente.”

E certo “dall’Inferno emana una gran puzza di denaro”[13], perché al fondo vi sono i falsari e gli usurai: già dagli anni 1910 Pound filologo romanzo traccia una summa personale della Commedia in cui mostra la potenza esoterica nelle intenzioni e lo stile di Dante[14]. Basti pensare che egli è tuttora tra i pochi ai quali più dell’Inferno piace il Purgatorio, e ancor più la metafisica della luce e l’estasi del Paradiso. Peculiari sono le lunghe sequenze di versi originali, quasi più che analizzarli voglia mandarli a memoria: dell’Inferno XVII (Gerione, “simbolo della frode”) riporta interamente da 1 a 24, del Purgatorio I i primi 21 versi, del secondo (l’angelo nocchiero) da 10 a 45, del XXVIII (Matelda) i primi 75 versi !  E i commenti sono brevi e modesti, precisi: proprio sulla precisione di visione, dantesca e stilnovista, egli insiste, ribadendo che non abbiamo bisogno di chissà quali ermeneutiche (ringrazia Luigi Valli[15] per aver destato a letture più complesse, però “una mente sana respinge lo snobismo stravagante degli )” – bensì “abbiamo bisogno di un lessico” per tradurre dagli Stilnovisti. Noi che “abbiamo perso la facoltà di distinguere un investimento produttivo da uno distruttivo, nonché il concetto di decadenza intellettuale”, abbiamo bisogno di tornare alla precisione della Tradizione medioevale. E qui Pound mostra un’insospettabile competenza (latino e musica), elaborando sottili distinzioni filosofiche, ritmiche, musicali. Apprezza la traduzione inglese della Commedia di Lawrence Binyon proprio in quanto robusta e non sofisticata, mentre per capire Donna me prega di Guido Cavalcanti invoca gli pneumatici e l’intelletto possibile di Averroè contro la scolastica di Tommaso. L’eclettico e sperimentale Cavalcanti infatti, meglio di Dante gli fa scoprire la “virtù toscana”, fortemente innovatrice con la varietà delle rime sulla monotonia della canzone provenzale, e lo induce a uno straordinario volo metafisico. In opposizione alla scultura greca classica, a suo parere troppo diretta al plesso solare e a quelli inferiori, ma d’altra parte in opposizione alle “due malattie, l’ebraica e l’indù, i fanatismi e gli ascetismi monastici medioevali”, Pound rivaluta le risonanze poetiche (nonché pittoriche e persino architettoniche) rispondenti diciamo ai chakra superiori – cuore, mente, intelletto (o anima). Lo fa letteralmente ‘auscultando’ la complessità della canzone, poi del sonetto (che avrebbe luogo una volta persa la capacità di comporre la poesia per il canto). E a quelle due malattie contrappone “la sanità mediterranea, la sezione aurea, che produsse Saint Hilaire a Poitiers, San Leo e San Zeno a Verona, il Duomo di Modena, Bisanzio (sintonia con Yeats) e l’eredità bizantina in Sicilia”… ovvero la scelta di un’armonia interiore[16].

Tornando ancora un momento al Pound poeta, sempre sconcerta da un lato la familiarità del suo approccio con qualsiasi lingua, dall’altro la trasparenza – come nel tardo Canto CXIV: “Non iniziò e non termina nulla./ Anche al ragazzo del fruttivendolo sarebbe piaciuto scrivere qualcosa,/ ma disse: / La tenerezza, infinita, delle sue mani./ Mare, blu sotto gli scogli, oppure/ Yeats che mormora: <Sligo in cielo> quando calò la nebbia/ sul Tigullio. E la verità sta nella tenerezza.”[17] Così la sua è sempre l’evocazione di una comunità di poeti (“la letteratura non appartiene al singolo”), un cosmopolitismo di quelli morti e di quelli vivi, da lui provvidamente soccorsi. In Histrion scrive:

Nessuno ha osato scriverlo finora,/ Ma io so come avviene che le anime dei sommi/ Talvolta ci attraversano/ Ed ecco, siamo disciolti in loro, non siamo/ Se non riflessi delle anime loro”/…/ [18]

 

VI. Pensare come un saggio – parlare come il popolo – la magia irlandese di Yeats

William Butler Yeats, cui Pound per qualche anno fece da segretario nel Sussex giusto prima della Guerra, sarà suo ospite a Rapallo, e a lui dedichera’ la “prefazione” di A Vision, 1928 (Una Visione, Adelphi 1973), libro ‘tecnico’ che illustra la psicologia archetipica del suo calendario lunare, dettata da misteriosi “istruttori” alla moglie in trance e da lui trascritta. Ma questo non è che un ultimo episodio della sua personalità, fin dall’infanzia orientata a ciò che vien detto parapsicologia – certo ben gestita e fruttuosa. Se “non siamo che riflessi delle anime loro” come scriveva l’amico, Yeats crede che “le menti possano fluire l’una nell’altra, così creando e svelando una mente o energia unica, poiché le nostre memorie sono parti dell’unica memoria della natura[19]. Così, raccogliendo le fiabe popolari in gaelico di Leprechauns e Banshees, folletti, streghe e animali fatati del “piccolo popolo” o Sidhe, riesce non solo a guarire lo zio affetto da allucinazioni (lo spiega in Hodos Chameliontis), ma soprattutto a formare una mitopoiesi, una fantasia nazionale irlandese, la irishness o ‘irlandesità’ primigenia (“prima che la cera si solidifichi”), anteriore alla divisione fra “Cattolici, mistici ma privi di gusto, e Protestanti concentrati solo sullo star bene al mondo”. Il successo dell’operazione, che inneschera’ la Irish Literary Renaissance, con i drammi yeatsiani applauditi alle stagioni dell’Abbey Theatre al centro di Dublino, e in fondo all’affermazione della prima autonomia irlandese (1921[20]), fu dovuto non solo al genio dell’autore, ma anche alla sua fortuna. Indubbiamente, l’iniziazione diciottenne col bramino Mohini Chatterjee, rinforzata più tardi da Shri Purohit (in samadhi), gli fornirà le basi della disciplina intellettuale e morale, la limpidezza che tutti gli riconoscono. Ma è nel sodalizio con Lady Augusta Gregory (ricca vedova che ha viaggiato in India, Francia e Italia), che lo ospita ogni estate (e molti inverni) nella sua residenza di Coole Park – questa straordinaria collaborazione umana e artistica nel lancio della Renaissance teatrale, a permettergli una crescita inarrestabile, fino al Nobel del 1923. Certo Yeats già custodiva sacra la memoria dell’infanzia trascorsa presso i nonni materni nella campagna di Sligo (Sligeach), sulla costa nordoccidentale dell’isola: “Io, Augusta Gregory e John Synge pensavamo/ che ogni cosa da noi fatta, detta e cantata/ dovesse sorgere dal contatto con la terra, da quel/ contatto ogni cosa, come Anteo, cresce forte./ Noi tre soltanto nei tempi moderni abbiamo riportato/ di nuovo ogni cosa a fare i conti giù con la terra/ sogno del nobile e dello straccione” (The Municipal Gallery Revisited, 1937[21]). John Synge è lo sconosciuto poeta irlandese presentatoglisi in un piccolo albergo di Place de l’Odéon a Parigi – dove Yeats ha già conosciuto Mallarmé e Verlaine. Yeats recisamente gli sconsiglia la metropoli e caldamente lo invita a risiedere alle isole Aran, vivendo come uno degli abitanti. Synge seguirà il consiglio e quindi darà un contributo decisivo alla scrittura teatrale dell’Abbey: la sua prima opera, The Playboy of the Western World ha un grande successo nel 1907. Ma soltanto due anni dopo muore, mentre sta rivedendo le bozze di Deirdre of the Sorrows, e la sua scomparsa influenza la scrittura di Yeats, che diventerà più nervosa.

La terra del Kiltartan, dove sorge la tenuta di Coole Park, comunque gli ha già dettato una forte coscienza di poeta-guerriero, in Un aviere irlandese prevede la sua morte (settembre 1913): “…/ Io non odio la gente che combatto/ e non amo la gente che difendo;/ il mio paese è Kiltartan Cross,/ i miei compatrioti sono i pezzenti di Kiltartan;/ nessun evento può toglier loro qualcosa,/ o renderli più felici che in passato./ Non la legge, non il dovere mi costrinsero alla guerra,/ ma un impulso solitario di gioia[22]/…/ E se in Easter 1916 (sul Rising, la sommossa di Pasqua) celebra gli amici giustiziati (incluso il suo rivale in amore McBride) nella sanguinosa repressione dell’appena proclamata Repubblica d’Irlanda, perché comunque “oggi è sorta una terribile bellezza” (A terrible beauty is born), in altri versi della poesia precisa il ruolo dei poeti: “E’ il ruolo dei Cieli, il nostro ruolo/ Quello di mormorare nome per nome,/ Come una madre chiama suo figlio/ Quando il sonno è infine calato/ Su membra che hanno corso sfrenate.”[23]

E chissà se Maud Gonne, pasionaria della lotta di liberazione antinglese, col rifiutare le YEATS E GEORGIEsue reiterate proposte di matrimonio, non gli sia stata dopotutto propizia, contribuendo a mantenerlo in uno stato di eccitazione creativa e permettendogli di trovare infine (1917) la compagna nella preziosa medium Georgie, con cui lavorerà nella Torre di Galway. La tarda Under Ben Bulben evoca invece la contessa Markievicz, bella donna che Yeats nell’infanzia a Sligo ricorda cavalcava sui campi vicino Lissadell; indipendentista condannata a morte, attende in carcere, e Yeats la immagina dalle sbarre nutrire un gabbiano:

Quando tanto tempo fa la vidi cavalcare/ a caccia sotto il Ben Bulben/ bellezza di tutta la campagna/ nello slancio della sua gelosa selvaggia giovinezza/ pareva cresciuta così dolce e pura,/ come un uccello nato dal mare e nutrito di roccia.”[24]

Frattanto, nel lavoro teatrale, i fratelli Fay gli suggeriscono una modalità registica e attoriale di silenzio e quasi immobilità, che ben si accorda con la coeva ispirazione yeatsiana al Teatro Nō giapponese. Un simbolismo sempre più assoluto si manifesta nella raccolta The Winding Stair (La scala a chiocciola) del 1933, nella sezione A Woman Young and Old, ad esempio in Prima che il mondo venisse creato (Before the World was Made): “Se mi faccio le ciglia scure,/ E gli occhi più brillanti,/ E le labbra più scarlatte,/ O chiedo se tutto va bene/ Di specchio in specchio/ Non è per vanitosa esibizione:/ Io sto cercando il volto che avevo/ Prima che il mondo venisse creato/…/”[25] Seppure il contesto qui appaia quello attoriale, il tema consuona nel famoso koan zen “mostrami la faccia che avevi prima di nascere” – la cui risposta è possibile solo attingendo l’assoluto. Nella novella Rosa alchemica Yeats aveva scritto: “Ripetei a me stesso la nona chiave di Basilio Valentino, in cui egli paragona il fuoco del giorno del giudizio a quello di un alchimista, e ci annuncia che tutto deve dissolversi prima che la sostanza divina, l’oro materiale si desti […] e invocai la nascita di quella elaborata bellezza spirituale che sola può sollevare anime gravate da tanti sogni […].”[26] E poi chiarirà: “Se mi fosse concesso di vivere un mese nell’Antichità e la facoltà di trascorrerlo dove preferisco, credo che vorrei passarlo a Bisanzio, un po’ prima che Giustiniano aprisse S. Sofia e chiudesse l’Accademia Platonica (537 d.C.).”[27] La famosa poesia Sailing to Bysanthium[28] (in The Tower, 1927) sviluppa questa intuizione e volontà di metempsicosi infinita:

     III.

O sages standing in God’s holy fire
As in the gold mosaic of a wall,
Come from the holy fire, perne in a gyre,
And be the singing-masters of my soul.
Consume my heart away; sick with desire
And fastened to a dying animal
It knows not what it is; and gather me
Into the artifice of eternity.

 

IV.

Once out of nature I shall never take
My bodily form from any natural thing,
But such a form as Grecian goldsmiths make
Of hammered gold and gold enamelling
To keep a drowsy Emperor awake;
Or set upon a golden bough to sing
To lords and ladies of Byzantium
Of what is past, or passing, or to come.

III.

O saggi che state davanti al sacro fuoco di Dio
come nel mosaico d’oro delle mura,                   scendete dal sacro fuoco, scendete in spirale,
e siate i maestri cantori della mia anima.
Consumate il mio cuore; malato di desiderio
e legato a un animale moribondo,
non sa quello che è; e accoglietemi
nell’artificio dell’eternità.

IV.

Una volta fuori di natura non prenderò mai più
la mia forma corporea da elementi naturali,
ma una forma quale creano gli orafi greci
d’oro battuto e lamine d’oro
da tener desto un letargico Imperatore;
o posato su un ramo d’oro cantare                                ai signori e alle dame di Bisanzio
ciò che è passato, o passa, o verrà.

Sempre in Under Ben Bulben (“Sotto il Ben Bulben”, il monte ai cui piedi verrà sepolto) Yeats rivendica appartenere all’Irlanda primigenia, anziché all’India, il sentimento di una eterna reincarnazione: “Molte volte l’uomo vive e muore/ Fra le sue due eternità,/ Quella della razza e quella dell’anima/ E l’antica Irlanda sapeva tutto ciò.”[29] La lettura di Stock (vedi nota precedente) sottolinea l’accento vitale di Yeats, che è riuscito a far buon uso delle tecniche meditative indiane, ma al fine di stabilire il trait d’union con la sapienza – più che neoplatonica, soprattutto mito-poietica celtico-europea, così è significativo il suo motto “Il mio esempio è Omero, e il suo cuore non-cristiano”. Un poeta non è un santo, nemmeno un moralista o un filosofo, ma un uomo irripetibile, impegnato a scambiare coi suoi simili i frutti più nitidi della sua energia creativa.

Dunque, seppure la raffinatezza preraffaellita dei suoi primi poems divenga più asciutta  e incisiva nella poesia successiva, la parola di Yeats mantiene una sua grazia e cantabilità proverbiale, nel senso anche letterale che è davvero all’origine di tanta musica new age (e di letteratura, si pensi soltanto alla saga del Signore degli Anelli di Tolkien), a partire dagli anni ‘70 del ‘900: da Donovan, che nel ‘71 musica The Song of the Wandering Aengus, a Branduardi (Branduardi canta Yeats), agli Incredible String Band, ai Waterboys (An Appointement with Mr.Yeats), al rapper romano Briga, etc.

 

VII. Thomas Stearns Eliot ­– la musica del metodo mitico

Il volto più straight della ‘trimurti’ modernista, clerk al Colonial & Foreign Department dei Lloyds di Londra (fino al 1925), “classico in letteratura, monarchico in politica e anglocattolico in religione”[30], Eliot è il più incerto e tormentato dei tre, e il suo sofferto disincanto ha davvero bisogno di una Parola sacra, Upaniśad o Vangelo che sia. E’ così singolare che torni in America a studiare il sanscrito prima di stabilirsi definitivamente in Inghilterra, come è raro che da poeta accetti un’amputazione così radicale come quella inferta dal “miglior fabbro” Pound al suo poema centrale The Waste Land. Ma è proprio il successo letterario di questa “cesarea operazione” che invita all’indagine.

La poesia di Pound ed Eliot è inscritta nelle avanguardie letterarie e artistiche d’inizio ‘900[31], ma spontaneamente sembra nascere già da un loro umanistico rifiuto-orrore dell’invasione macro-meccanica, l’inquinamento di terre arie e acque, la completa desacralizzazione di ogni rapporto[32] e, a Guerra mondiale terminata, della sua barbarie assieme alla minaccia della Rivoluzione russa.  Eliot è caratterialmente a un passo dal nihilismo, e se “inconsistenza e contrapposizione universale” sono le caratteristiche dell’epoca, è paradossale definire la sua risposta, in quanto essa stessa partecipa al processo di irrealizzazione del mondo, cioè alla sua incoerenza e al suo svuotamento. Nel 1911 egli teorizza il paradosso: se “grande poeta è colui che esprime con la massima intensità emotiva il pensiero del suo tempo, qualunque esso sia[33], ciò può avvenire però con l’ “impersonale” non-emotività dello scrittore, nella consapevolezza di svolgere un servizio che ha dietro di sé l’intera tradizione. Perciò si dota del “correlativo oggettivo”[34] come strumento retorico: “Il solo modo di esprimere emozioni in arte è scoprire un , una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi che saranno la formula rappresentativa di una particolare emozione”. In tal modo è come se fossero le cose a parlarsi, nella sua poesia non c’è quasi mai io in prima persona, gli uomini infatti presto diverranno “vuoti” (Hollow Men, 1925), quasi pupazzi impagliati vomitanti formule senza intenzione.

Fin d’ora si noterà che è proprio dal suo linguaggio elementare, scarnificato e pulito che nasce The music of Poetry (1942), dove “nessun verso è libero per chi voglia fare un buon lavoro.” Montale percepisce questa musica, “in cui a volte affiora il tradizionale pentametro giambico. Una musica bassa, apparentemente prosastica, parlata e non cantata.”[35] Ed è questo a sorprendere Hugo Friedrich[36]: il famoso “tono polifonico” de La Terra Desolata risulterebbe non da una fusione armonica ma da un montaggio (arbitrario ?) di vari registri (lirico, parlato, parodico, sapienziale etc), che tuttavia occorre chiedersi come mai ‘funziona’ – tanto più che  Eliot riprende anche, e intensifica l’atmosfera buia, il colore depresso, lo spleen di Baudelaire e il sarcasmo di Jules Laforgue.

E dunque: da una parte è il caos del mondo a non poter più esser ‘cantato’ – già in The Love Song of J. Alfred Prufrock (1910), pubblicata su “Poetry” nel 1915 (e in altre poesie del periodo), Eliot ‘dimentica’ nessi logici, lasciando sfaldarsi personaggio e paesaggio – d’altra parte il poeta cerca e trova una scrittura adeguatamente s-connessa. Interessante che lo faccia a posteriori, l’anno dopo l’uscita della sua Terra Desolata, nella recensione all’Ulisse di Joyce (1923): “Nel manipolare un continuo parallelismo tra il mondo contemporaneo e il mondo antico, Joyce sta seguendo un metodo che altri dovranno seguire dopo di lui […] è semplicemente un modo di controllare, ordinare, dar forma e significato all’immenso panorama di futilità e anarchia che è la storia contemporanea. E’ un metodo già adombrato da Yeats e della cui necessità credo Yeats sia stato il primo contemporaneo a rendersi conto. E’, lo credo seriamente, un passo verso la possibile resa del mondo moderno in termini artistici […] Invece del metodo narrativo, noi possiamo ora usare il metodo mitico.”[37]

Prescindiamo per ora (fino al 1927 Eliot non si professa cristiano) dalla lettura religiosa di Mario Luzi, che riprenderemo nelle conclusioni. En passant però si noti come quella “resa del mondo moderno in termini artistici” possa rinviare in modo sorprendente alla tecnica giapponese del kire, cio’ che nelle varie arti spezza il reale convenzionale, scomponendolo in una ‘irreale’, nuova dis-posizione o dis-continuità.[38]

Dall’impossibilità della narrazione intanto, impossibilità di ogni ingenuo realismo – essendo gli eventi e l’uomo stesso ormai imprevedibili – riuscire in una resa musicale del caos, un modo più coinvolgente e affine al discorso letterario che non la sincronicità visiva del cubismo: questo appare l’intento più plausibile. Eliot era rimasto affascinato dalle barbariche dissonanze del Sacre du Printemps di Strawinskij (Parigi 1913), e in seguito ne legittimerà la funzione ne La Terra Desolata, come principio di ribaltamenti tematici e intertestuali. L’approccio implicitamente “ecosofico” di Eliot dovrebbe essere verificato con l’aggiornatissimo e polimetodologico Oikosofia di Daniela Boccassini.[39] Mentre Alessandro Serpieri[40] segue l’intuizione di Julia Kristeva, che già in Shmeiwtikh (Feltrinelli 1978) ribadiva l’inevitabilità del polistilismo in poesia: “è una legge fondamentale, i testi poetici moderni si costruiscono assorbendo e distruggendo nel medesimo tempo altri testi dello spazio intertestuale: sono per così dire alter-giunzioni discorsive.” Il metodo mitico insomma costruisce il suo testo dal confronto con altri testi, passando da un paradigma all’altro (letterario, mitico, antropologico),  e da un codice all’altro.[41]In una società alienata, lo scrittore partecipa mediante una scrittura paragrammatica a partire dalla sua stessa alienazione[42] (ivi). Motivazioni, circostanze, soluzioni stilistiche e critiche, fin dagli inizi di Eliot ad oggi, si rivelano dunque assolutamente attuali.

 

VIII. L’impossibile alchimia de La Terra Desolata

La musica di cui parlano Montale e Friedrich, data dal registro medio della lingua (tranne nei nomi propri e negli inserti) occulta l’estrema complessità di rimandi letterari, religiosi e/o esoterici che l’autore dichiara nella nota introduttiva – in primis il riferimento a Jessie Weston From Ritual to Romance (1920), e all’antropologia dei riti di vegetazione e risurrezione che James Frazer tratta in The Golden Bough (1915).[43]

Il tema antropologico letterario tacitamente implicato dal poemetto è che occorre curare la terra  guasta. Il che è archetipicamente possibile solo se guarisce il suo re malato, il re del Graal o Re Pescatore.[44]

Fra le (im)possibili letture del fortunato poemetto di Eliot potrebbe esservi quella alchemica. La Nigredo iniziale sembra quasi evocarla con la “Sepoltura dei morti” rovesciata ad aprile. Potrebbe concordare anche la Putredo, il marcire dei rapporti umani del II quadro Una partita a scacchi. Persino l’intero poemetto potrebbe venir letto come una nékuia, un descensus ad inferos (di un ipotetico soggetto oggettivato) alla ricerca di un contatto salvifico. Ma diventa presto molto arduo sia rintracciare le fasi alchemiche di anabasi, risalita verso una rinascita, che l’esito di questo viaggio. Se uno sviluppo vi è, è in negativo: il re non guarisce, anzi la sua malattia o impotenza si diffonde per la terra fra tutti i suoi personaggi, antichi e contemporanei, nobili e proletari.

Grappoli di alta storia-poesia intrecciano i primi versi: Chaucer, Webster, Louis Philippe, James Thomson, il lago Starnbergersee dove annegò il folle re prussiano Ludwig II, mecenate di Wagner, il racconto di Marie Vetsera – Eliot quasi rivela la tragedia di Mayerling.[45] Il sincopato excursus sull’aristocrazia apre al profeta Ezechiele, il quale maledice la terra senz’acqua e minaccia l’uomo ignaro, lo invita (fra parentesi) a tornare sotto la Chiesa mostrandogli “la paura in un pugno di polvere” (v. 30, cfr. John Donne). Di seguito, la canzonetta che il marinaio canta alla sua bella  (Tristano e Isotta) è subito contradetta da una sorta di svenimento nel Giardino dei Giacinti, ove invano la ragazza guarda al ‘cuore della luce’ (contro il conradiano ‘cuore di tenebre’), perché Oed’ und leer das Meer,Desolato e vuoto il mare” (ancora dal Tristano). Repentino cambio di scena con Madame Sosostris, “famosa chiaroveggente ha un brutto raffreddore, ciononostante è nota come la più saggia donna d’Europa con un perfido mazzo di carte” – Tarocchi da cui estrae il Marinaio Fenicio affogato, i cui occhi son diventati perle, le ossa corallo (la rigenerazione miracolosa è qui allusa quale tema de La Tempesta shakespeariana), quindi estrae la Belladonna, poi il Mercante di Smirne orbo di un occhio (col suo carico misterico)… non trova l’Impiccato (che Eliot associa al Dio impiccato in Frazer) e invece vede “folle di gente che camminano in cerchio”, come in certi passaggi di Federico Fellini. La ripresa dantesca dell’ultima stanza eleva l’effetto corale: “Città irreale, sotto la nebbia bruna di un’alba d’inverno/ una folla fluiva sul London Bridge, tanti/ io non avrei creduto che morte ne avesse disfatti/ Sospiri, brevi e rari, ne esalavano/ e ognuno fissava gli occhi davanti i suoi piedi.[46] Il reduce-berretto Stetson innesca un’apostrofe sui morti viventi che il Cane potrebbe dissotterrare e risvegliare, richiamando la complicità del Lecteur di Baudelaire nell’ultimo verso (che nell’originale definisce la Noia “mostro delicato”, conclusivo della rassegna dei mali moderni).

Il II quadro, Una partita a scacchi è più semplice, due sole scene: la prima su Cleopatra (e ancora lo stupro di Filomela, Ovidio), la seconda il basso dialogo di due donne in un pub. Qualche sprazzo poetico accende la prima, per esempio i capelli che “ardevano in parole” (glowed into words), o il pensiero che “siamo nel vicolo dei topi/ dove i morti hanno perso le loro ossa” (I think we are in rats’ alley/ Where the dead men lost their bones), e conseguentemente non c’è nulla nemmeno nella testa del suo interlocutore. Nella seconda, l’intercalare del barista SBRIGARSI PER FAVORE, SI CHIUDE termina col “Buonanotte dolci signore” con il quale Amleto esce di scena (IV, 5, 71-72).

Centro geometrico e simbolico della Terra Desolata, il III quadro (il più ampio, vv. 173–311 dei complessivi 433) Il Sermone del Fuoco è affidato a Tiresia, “la figura più importante del poema, che unisce tutti gli altri” (Eliot), in quanto in lui parla la bisessualità (archetipo), anche se ormai ridotta a dolorosa consapevolezza. Ma il vero protagonista sembra il fiume Tamigi: “Dolce Tamigi, scorri lieve, finché non finisca il mio canto” (Spenser, Prothalamion, quando il fiume era ancora abitato da Ninfe). Però ormai “la tenda del fiume è rotta” (la vegetazione marcisce), e le ninfe (prostitute estive) sono partite. Vi affiora il Salmo 137: “sui fiumi di Babele piangevamo al ricordo di Sion”, e in prima persona singolare Eliot stesso, che a Losanna, “presso le acque del Lemano mi sedetti e piansi” (By the waters of Leman I sat down and wept). Gli scrocchiano le ossa e sente il ghigno del tempo da un orecchio all’altro (chuckle spread from ear to ear), come Bloom nell’Ulisse di Joyce, e come Ferdinando, che ne La Tempesta piange il naufragio del padre re. La vista di un topo osceno evoca lo scimmiesco Sweeney con Mrs. Porter, che sostituiscono Atteone e Diana del dramma di John Lily. La signora Porter e figlia si lavano ancora più oscenamente (per contrasto è citato il verso sulle voci bianche dalla poeia Parsifal di Verlaine), richiamando suoni copulativi (il tema di Tereu che stupra Filomela). Di nuovo, nella “città irreale” e nell’ “ora viola” Tiresia riceve un invito dal Mercante di Smirne Eugenide, mentre vede rincasare il marinaio e la dattilografa, e prevede (lui che era stato sotto le mura di Tebe) lo squallido seguito sessual-meccanico. Appena uscito il marinaio, la dattilografa metterà su un ballabile, mentre Tiresia ricorda la musica soave de La Tempesta, e la proietta negli angoli tuttora rilassati di Londra, fino al veleggiare caro all’autore, fino all’estuario. L’ultima copula evocata (“A Richmond sollevai le ginocchia/ supina sul fondo di una stretta canoa”) non può essere quella nel battello dalla chiglia dorata, che trasporta la coppia Regina Elisabetta ­– Conte di Leicester. Ma è comunque il momento della resa: “Posso solo connettere/ Nulla con nulla” (I can connect/ Nothing with nothing).[47] Le telegrafiche citazioni dalle Confessioni di S. Agostino e dal Sermone del Fuoco del Buddha sottolineano infine un rogo che non purifica tale nihilismo.

Si sa che La morte per acqua, IV episodio de la Terra Desolata, venne ridotto da Pound agli attuali 10 versi, egli però rifiutò di cassarlo integralmente, vuoi per lo stile epigrammatico vuoi perché cita la poesia eliotiana Dans le Restaurant inclusa nei Poems 1920, con quel Flebas il Marinaio affogato “assolutamente necessario.” Come sempre, sacrificato “in bisbigli”, topos eliotiano già in Gerontion e Whispers of Immortality, e ora al 377-8: “Una donna tirò tesi i suoi lunghi capelli neri/ e arpeggiò musica di bisbigli su quelle corde” (A woman drew her long black hair out tight/ And fiddled whisper music on those strings).

La ‘vicenda’ desolante avrà un esito in Ciò che disse il tuono, V episodio ? Forse sì, ma un esito ‘improprio’. Già il titolo fa riferimento a un versetto della Bṛhadāraṇyaka Upanișad[48] (forse la più antica), in cui il creatore (autosacrificante) Prajāpati verifica che i suoi ‘figli’ Dei, Uomini e Asura abbiano compreso gl’insegnamenti; e così è: gli Dei hanno compreso il loro DA, cioè “dominatevi” (dāmyata), gli Uomini il loro DA, cioè “date” (datta), gli Asura il loro DA, cioè “siate compassionevoli” (dayadhvam). La Voce del Tuono DA DA DA ha insomma dettato i precetti che bisogna insegnare e anzitutto eseguire (tutti): l’autodominio (dama), l’offerta (dāna), la compassione (dayā) – ossia gli aspetti del sacrificio, ciò che sostiene ṛta, l’ordine cosmico[49]. Ma qui l’intero episodio ha invece contenuti e svolgimento eminentemente cristiani e biblici. Eliot stesso annota che “nella prima parte sono impiegati tre temi: il viaggio a Emmaus, l’avvicinamento alla Cappella Perigliosa (del Graal) e la presente decadenza dell’Europa orientale.”[50]

Si apre una lunga agonia da sete (roccia senz’acqua), che genera anche un’allucinazione: un altro cammina al nostro fianco[51], in una condizione letteralmente apocalittica: orde incappucciate su montagne che si spaccano, torri crollanti, pipistrelli con facce di bambini, voci cantanti dal fondo di pozzi esauriti (forse Geremia 2,13)… la Cappella è vuota, persino il Gange è basso, né lo spruzzo di pioggia annunciata da un gallo varrà a mutare lo scenario… fra Bosch e uno splatter postmoderno. Ma non solo: la coscienza del Datta “che cosa abbiamo dato” riporta alla memoria irrevocabile la violenza sessuale già nell’infanzia; quella della compassione Dayadhvam vede che “ognuno gira la chiave della sua prigione” (e Coriolano finirà ucciso); la coscienza dell’autodominio (Damyata) infine lascia sì, apparire una vela, che risponde alla mano esperta (del nocchiero Eliot) sul mare calmo, eppure “il cuore avrebbe risposto”… nel condizionale qualcosa ancora s’interpone: il dubbio (Isaia 38,1 al re Ezechia) “riuscirò almeno a mettere ordine alle mie terre ?” Ed ecco i 6 versi finali accavallare un’intertestualità infernale, un vero Feu d’artifice[52]: <London Bridge is falling down falling down falling down)/ Poi s’ascose nel foco che gli affina (i lussuriosi di Purg. XXVI)/ Quando fiam uti chelidon (“quando sarò come la rondine”, ancora Filomela nel Pervigilium Veneris) – O Rondine Rondine (- O Swallow Swallow)/ Le Prince d’Aquitaine à la tour abolie (Gerard de Nerval, El Desdichado, ma anche l’arcano XVI La Torre dei Tarocchi, “Maison Dieu” spaccata dal fulmine)/ Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine (These fragments I have shored against my ruins)/ Be’, allora vi sistemo io. Hieronymo è pazzo di nuovo (Why then Ile fit you. Hieronymo’s mad againe)>>. Quest’ultimo, annota Eliot, è Spanish Tragedy Kyd, dramma elisabettiano: impazzito per la morte del figlio, Hieronymo così risponde a Balthasar e Lorenzo, che gli hanno chiesto aiuto per mettere in scena un dramma: “Why then Ile fit you” significa a un tempo “vi assegnerò io le parti” e “vi sistemerò”, perché nella recita farà in modo che vengano uccisi gli assassini di suo figlio.

A questo punto, la chiusa Datta. Dayadhvam. Damyata./ Shantih shantih shantih[53] è sì, in chiave religiosa un’invocazione-scongiuro (come un “Oh Cielo ! Oh mio Dio !”); ma nell’implicito approccio transculturale suona quasi uno sberleffo: la storia europea (che segue l’archetipo giudaico) sembra motteggi la saggezza indiana, sancendone l’inapplicabilità all’apocalisse in atto ­– come dire: ‘qui altro che pace!’; però sul piano letterario, anzi poetico, è certo un coup de théâtre, un ricorso tematico che sembra anticipare una “pace” New Age figlia dei Fiori.

Ricordando il giudizio di Montale: “T. S. Eliot ha un tono da grande poeta ma in lui musica e pensiero stentano spesso a mettersi d’accordo. La Terra desolata mi pare unita solo esteriormente, cucita con lo spago[54] – si potrebbe osare un ulteriore grado di incertezza ermeneutica, o una sua variante: dopotutto, se da parte dell’Autore è strutturale il “multiculturalismo” del testo (il “metodo mitico”), non potrebbe esserlo anche una pluri-ermeneutica da parte del Lettore? Così, poniamo che Eliot, senza curarsi troppo di tesi antropologiche, abbia lanciato in aria le sue carte, le sue serie letterarie e poetico-mitiche di varie epoche e nazionalità, decidendo soltanto i titoli dei cinque episodi, e ordinando (a una sorta di computer “intelligenza artificiale”) la costruzione di qualche scenetta – sessuale, di naufragio e di desolazione apocalittica… gli elementi andrebbero a posto da soli, automaticamente, secondo il principio vitale, evolutivo e performativo del massimo effetto col minimo dispendio energetico… in un’autorganizzazione fra ordine e caos, una ‘disarmonia prestabilita’ o dis-equilibrio di accostamenti – quello che tuttora suscita il gradimento, anzi costituisce il fascino, la music of poetry del poemetto.

La rappresentazione del caos contemporaneo, già nelle prime avanguardie, piace perché è un esorcismo artistico. Non solo ci si vede rappresentati e giustificati, ma si vede e si sente tale rappresentazione come bella, positiva – proprio mentre è costituita da fragments, da relitti. Si tratta quindi di una vera operazione di riciclo ideologico, dai risvolti finanche socioterapeutici.

 

IX. Quatuor pour la fin du temps[55] – la Tradizione nei Quattro Quartetti

I Four Quartets (1943) sono raffinatissimi excursus mistico-musicali[56], ha scritto Alfonso Berardinelli[57]:  “Aveva analizzato il caos e l’assurdo, ma aspirava alla fede e all’ordine […] Lo stile di Eliot è insieme morbido (morboso) e laconico (severo). Questi poemetti sono leggibili come saggi in versi o come monologhi drammatici”.

I Quartetti di fatto costituiscono il passaggio dal modernismo al post-modernismo. E certo il ritorno a una tessitura più coerente e armonica, pur non implicando l’accostamento al Paradiso dantesco da qualcuno avanzato (la Terra Desolata come Inferno), consente un’identificazione di corrispondenze iniziatiche: Burnt Norton = Primavera, Aria; East Coker = Estate, Terra; The Dry Salvages = Autunno, Acqua; Little Gidding = Inverno, Fuoco. Dove però si rovesciano le fasi del tradizionale processo alchemico, qui concluso col fuoco della storia. Seguendo la traccia religiosa, [58] si può tentare l’evidenza trasversale (ai Quattro Quartetti) di alcuni ragionamenti riconoscibili, ad esempio nei temi del Tempo/Eternità, del Sacrificio, dell’Individuo/Comunità.

IX a. Tempo ed Eternità

Centrale è l’asse problematico eliotiano del tempo. Già il I Quartetto Burnt Norton[59] (1935) convoglia al presente i due classici corni del passato (l’im-possibile e il reale): “Ciò che avrebbe potuto essere e ciò che è stato/ mirano a un solo fine/ che è sempre presente”. [60] Quindi si focalizza l’attimo, di cui è simbolo la danza, sospesa e ‘fotografata’ come in estasi: “Al punto fermo del mondo rotante. Non corporeo, né incorporeo;/ Non da né verso; al punto fermo, là è danza/ Il luogo dove passato e futuro sono uniti.”[61] E certo, l’Autore ricorda l’insegnamento agostiniano e buddhista, non c’è passato né futuro, “esser consapevoli è non essere nel tempo” – ma ecco, torna l’emozione: “Solo nel tempo è il momento delle rose nel giardino,/ della pergola dove batte la pioggia,/ della chiesa ariosa senza fumo/ ricordate fra passato e futuro/ solo attraverso il tempo si conquista il tempo.” [62]  Una dichiarazione che sembra definitiva, rafforzata dalla “coesistenza” (v.145) dei tempi invocata nel finale – dove però l’attimo, allargatosi in due infiniti come nella uroborica “porta carraia” di Nietzsche[63], torna a essere speculare, e quindi circolare: la fine precede il principio, prima del principio e dopo la fine. E tutto è sempre ora[64]. In effetti il tempo si rovescia come un calzino, in un implicito processo di metemsomatosi senza fine: l’epitaffio sulla tomba del poeta a East Coker[65] (II Quartetto, 1940), recita:

Nel mio inizio è la mia fine. Per gentilezza, pregate per l’anima di Thomas Stearns Eliot, poeta. Nella mia fine è il mio inizio[66].

E proprio questa semplicissima idea (fatalismo quasi stoico), è per Eliot la chiave che torna a riaprire la ferita del dolore e della morte, se anche nel finale del poema (Little Gidding) – dopo tutte le perorazioni (si vedranno più avanti), una straordinaria eulogia della Parola si conclude allo stesso modo: “Ogni passaggio e ogni frase sono una fine e un inizio,/ Ogni poesia è un epitaffio.[67]

Il più classico degli isomorfismi, poesia-forme di vita e di pensiero, segna il passo del poema – come in un Ovidio così in Eliot: qui il mare è “tutt’intorno a noi”, come se l’umanità fosse costantemente battuta da tsunami, perché il suo moto è simbolo della vicenda biologica universale, che lascia sempre a riva i suoi relitti ed è costretta a riprendere il largo. Un empito immenso respira in questa pagina di Dry Salvages[68]:

Quando avrà fine, il lamento senza suono/ Il silenzioso avvizzire dei fiori autunnali/ Che perdono i petali e restano immobili;/ Quando avrà fine, la deriva dei relitti,/ La preghiera dell’osso sulla spiaggia, la non pregabile/ Preghiera della calamitosa annunciazione?/ […] [69]

Giustamente Massimo Bacigalupo traduce qui il ricorrente where con il quando che la voce di Eliot continua a implorare – inascoltata dal Tempo. E niente mai avrà fine (nell’ecosofia eliotiana):

[…] non possiamo pensare a un tempo senza oceano, o a un oceano non cosparso di rifiuti, o a un futuro non esposto, come il passato, a non avere alcuna destinazione. Non avrà fine, ma aggiunta, l’orgoglio.”

E’ il più radicale, religioso nihilismo che la modernità abbia mai immaginato. Religioso nella ricorrente presenza di una misteriosa “incarnazione”, o “punto d’intersezione dell’atemporale con il tempo” che poter percepire è “un’occupazione per santi.”

La domanda a Oriente però ritorna, e sembra confermare una tragica ciclicità:

Mi chiedo a volte se Krishna volesse dire questo/[…] la via che sale è la via che scende, la via in avanti è la via indietro./ E’ difficile da ammettere senza esitazione, ma nondimeno sicuro,/ Che il tempo non guarisce: il paziente non c’è più.” [70]

Così, l’evocazione della Bhagavadgītā (dove parla Krishna) incrociata con Eraclito, permette all’Autore di decostruire l’apparenza del Viaggio, e ai viaggiatori in treno o in nave Eliot ricorda un preciso momento del tempo, solitamente poco percepibile, quello del trapasso:

Nel momento non di azione né di inazione/ Potete considerare questo:   quella è l’unica azione/ (e il momento della morte è ogni attimo)/ Che darà frutti nella vita di altri;/ E non pensate al frutto dell’azione./ Ma andate avanti. […] Non buon viaggio,/ Ma buon proseguimento, viaggiatori.” [71]

Viene così esposto uno fra gli insegnamenti più difficili (esoterici e disattesi) di meditazione non solo buddhista o vedantica ma universale – senza una introduzione o una concreta probabilità di messa in pratica, data la ben scarsa opinione che Eliot ha dell’umanità (“Via via, disse l’uccello: il genere umano/ Non può reggere troppa realtà.”[72]), in un contesto poi di sarcasmo (il paziente non c’è più”).  E’ piuttosto un esempio sincretico del famoso “metodo mitico”.

Un ultimo esempio si trova in un luogo importante del poemetto, nel quarto Quartetto Little Gidding, dopo il commiato dal misterioso Maestro incontrato per le strade di Londra sotto i bombardamenti. Eliot espone in modo sintetico e ‘orientale’ l’ardua dottrina sapienziale del distacco, via alternativa ad attaccamento e indifferenza (una specie di morte questa, perché unflowering, “non sbocciando” fra l’ortica viva e quella morta). Il distacco invece sarebbe un di più dell’amore, una sua espansione oltre il desiderio, e così una liberazione sia dal futuro che dal passato[73]. Subito Eliot qui rielabora un possibile conflitto con l’amor di patria, il quale:

Inizia come attaccamento al proprio campo d’azione,/ ma giunge a considerare quell’azione, anche se non indifferente, di poca importanza.[74] Im-poetico eliotiano e understatement anglosassone, la cui ‘povertà’ non spiega come si possa giungere a considerare quell’azione di poca importanza, ma che qui evoca il miracoloso passaggio a una visione trascendente.

Realisticamente invece, in Dry Salvages si ammetteva che “La giusta azione è una libertà/ Dal passato come dal futuro./ Per molti di noi questo è il fine/ Che qui non si realizzerà mai.”[75]

IX b. Teologia Negativa

Un altro passo sapienziale però seguiva quella che è stata definita la “marcia funebre” (in East Coker) – dove tutti vanno nella tenebra (O dark, dark, dark), anzi nei “vuoti spazi interstellari, il vuoto va nel vuoto” (come nel Buddhismo la shunyata è vuotezza anche della vuotezza stessa), e tutti andiamo nel funerale silenzioso di nessuno, “perché non c’è nessuno da seppellire/ Dissi all’anima mia fermati, e lascia che la tenebra scenda su di te/ Sarà la tenebra di Dio./ […][76]. Seguendo la suggestione biblica, il Poeta allora rivolge all’umanità un invito dall’inconfondibile sapore mistico:

Dite che sto ripetendo/ Quanto detto prima. Lo dirò ancora./ Devo dirlo di nuovo ? per arrivare lì/ Dove siete/ Per uscire da dove non siete,/ Dovete andare per una via dove non c’è estasi./ Per arrivare a quello che non sapete/ Dovete andare per la via dell’ignoranza./ Per possedere ciò che non possedete/ Dovete andare per la via della spoliazione./ Per arrivare a ciò che non siete/ Dovete andare per la via in cui non siete./ E quello che non sapete è l’unica cosa che sapete/ E ciò che possedete è quanto non possedete/ E dove siete è dove non siete.”[77]

E’ il ritmo dialettico della teologia negativa o apofatica (fin dallo Pseudo-Dionigi Areopagita), più vicino a noi è Meister Eckhart (coevo di Dante), e ancor più l’ultimo grande poeta mistico europeo, Juan de la Cruz (morto nel 1591). Qui gli esempi potrebbero moltiplicarsi all’infinito, perché tutta la poesia sapienziale, di ogni tempo e latitudine, è costruita sulla negazione della negazione e sul paradosso. Si può considerare apofatico già Lao Tse, il cui famoso libro inizia con “Il tao di cui si può parlare non è il vero tao[78]; oppure il Discorso della Montagna o delle Beatitudini: “Beati i poveri di spirito, perché loro è il regno dei cieli[79], etc. Per Eckhart “nulla sapere nulla avere nulla volere”, la spoliazione assoluta dall’io è la via unitiva, l’identificazione con Dio. Ed è solo nella notte oscura dell’anima, nell’assoluta tenebra sul reale, nello svuotamento delle stesse proprietà o virtù (fede speranza carità) che Juan trova l’estasi, il nulla-dio. Un’ottava di Subida del Monte Carmelo potrebbe essere la fonte diretta dell’esortazione di Eliot: “Per arrivare a ciò che piace/ devi andare per dove non piace./ Per arrivare a ciò che non sai/ devi andare per dove non sai./ Per arrivare a ciò che non hai/ devi andare per dove non hai./ Per arrivare a ciò che non sei/ devi andare per dove non sei.[80] Si tratta di una forma mnemonico-didattica (facile rima), tipica delle coplas popolari, e potrebbe risalire al sufismo mediorientale attraverso Raimondo Lullo – afferma Giorgio Agamben.[81] Le Poesie di Juan de la Cruz sono gemme del misticismo universale, quali com-posizioni del negativo[82] (che per Hegel è l’essenza della filosofia, il suo “spirito assoluto”). Alcune coplas di più intenso dolore e più acuta privazione potrebbero rappresentare il cuore del tormentato cristianesimo di Eliot (e dei Quartetti), per esempio la IV Coplas dell’anima che smania per vedere Dio: (“[…] Vivo senza vivere in me/ e tanto forte spero/ che muoio di non morire”, […] Toglimi da questa morte/ mio Dio e dammi la vita […] O Signore, quando sarà ?/ Quando finalmente dirò/ Ora vivo di non morire[83]. O come inno alla imperscrutabilità la X “Glosa al divino”: […] Per tutta la bellezza/ Io mai mi perderò,/ Ma per un non so che/ Che si trova per caso […].

IX c. Sacrificio

Questa felicità che la fede trova per caso (por ventura) è forse quanto di più distante dalla modernità, e quindi da Eliot, ma è un aspetto del ‘cuore cristiano’ che in lui stiamo investigando. In effetti, i Quattro Quartetti compongono un percorso sacrificale, in cui l’individuo agisce e parla in nome della Comunità – Eliot stesso una volta tanto in prima persona: “E così io sono qui, nel mezzo del cammino, avendo avuto vent’anni/ In gran parte sprecati, gli anni entre deux guerres/ Cercando d’imparare a usare le parole al meglio/ Per ciò che non si ha più da dire/ O nel modo in cui non si è più disposti a dire.” [84]

Questa tragica presa d’atto della perfetta vanità della poesia stessa ha il suo riscatto, non solo nell’indicazione dell’ umiltà quale unica virtù (“L’unica saggezza che possiamo sperare d’acquisire/ E’ la saggezza dell’umiltà: l’umiltà è senza fine[85]), ma nell’instancabile mai arrendersi, sempre ricominciare, spingendo più avanti la meta: “Attraverso il freddo buio e la vuota desolazione/ Dobbiamo restare immobili e muovere ancora/ Verso un’altra intensità/ Un’altra unione, una più profonda comunione.” [86] E poi, come se l’unica femminilità rappresentabile nei Quartetti fosse questa pietas per la terra – le impalpabili colline di Londra (“Eruttazione d’anime malsane/ Nell’aria impallidita, gl’ignavi/ Portati dal vento che spazza le cupe colline di Londra,/ Hampstead e Clerkenwell, Campden e Putney,/ Highgate, Primrose e Ludgate[87] – e la terra stessa, devastata e abbandonata subito dopo le enclosures, ma un tempo così felicemente calpestata dai contadini, Eliot dipinge la danza negli open fields, sulla terra comune:

Nell’aperto campo/ Se non ti avvicini troppo/ Una mezzanotte d’estate sentirai la musica/ Del flauto dolce e del tamburello/ E li vedrai danzare intorno al falò/ Insieme uomini e donne/ Come in matrimonio/ […] A due a due, tenendosi per mano o al braccio/ […] Girando e girando al fuoco/ Saltando tra le fiamme, o uniti in cerchio,/ Rusticamente solenni e rusticamente ridenti/  Sollevando i piedi pesanti nelle goffe scarpe,/ Piedi di terra, piedi fertili, alti nell’allegria della campagna/ Allegria di chi a lungo sotterra/ Ha nutrito il grano. Tenendo il tempo,/ Tenendo il ritmo in quella danza/ Come la vita nelle stagioni che vivono/ Il tempo delle stagioni e quello delle costellazioni/ Il tempo del mungere e il tempo del mietere/ Il tempo di accoppiarsi uomo e donna/ E delle bestie. Piedi che si levano e ricadono./ Mangiare e bere. Letame e morte.”[88]

In questo squarcio, che inanella un microcosmo umano all’universale, per una volta Eliot rifonde il senso intero della Comunità, quasi l’utopia d’un tempo non più richiamabile, ritrovando una paganità (corretta nel sacramento del matrimonio !) così piena di sapori e odori, di suoni e ritmi, di fusione con la Natura.

Ma bisogna ricordare anche la terra-ospedale: il IV movimento di East Coker scatena una metafora terapeutica avvitata nel polemos politico-spirituale cristiano – prossima allo straziante inno alla Vergine di Mercoledì delle ceneri (Ash Wednesday, 1930) e davvero attualissima: sentiamo la compassione nella mano del chirurgo “ferito”, e un’infermiera “morente” ricorda “la maledizione di Adamo” e che “per guarire la malattia si deve aggravare”:

La terra intera è il nostro ospedale/ Finanziato da un milionario in rovina,/ Qui, se va bene, noi/ Moriremo dell’assoluta paterna cura/ Che non ci lascerà, ma ovunque ci precede. […] Sangue stillante è la nostra unica bevanda,/ Carne sanguinante l’unico cibo:/ A dispetto di ciò ci piace pensare/ Che siamo davvero sostanziale carne e sangue/ E inoltre, a dispetto di questo, lo chiamiamo Venerdì santo.”[89]

 

IX d. La Storia

E’ vero che il quarto Quartetto, Little Gidding[90] (1942) è la summa e ricapitolazione dei temi toccati nei precedenti, ma è anche quello ricco di novità, in primis la presenza di un’inquietante dark dove, “nera colomba” (antifrasi per aquila) con una scia di fuoco per le strade di  Londra. Una cosa è subito chiara: “ci sono molti luoghi-fine del mondo, ma questo è il più vicino[91], ed è in Inghilterra”. Si viene in questa cappella per pregare, cioè entrare in comunione coi morti.

Il “metodo mitico” si è completamente attualizzato, l’irruzione della Storia è tragica e devastante. Subito è la “morte dell’aria” per la polvere, poi sono “Acqua morta e sabbia morta/ Che si contendono la vittoria[92]. Quindi un’atmosfera ‘dantesca’ prepara l’incontro col Maestro: “verso il termine della notte interminabile/ Alla fine ricorrente di ciò che non ha fine[93]. L’incontro in strada con l’anonimo “maestro morto”, some dead master (uno per tutti), condensa finalmente la svolta cristiana: ora “il passato è passato” davvero, e occorre trovare parole nuove per il futuro – in primo luogo il perdono per tutti. Prima di accomiatarsi infatti, l’altro ammonisce il Poeta sui “brutti doni” che la vecchiaia porta: la rabbia per i sensi affievoliti, il non più divertirsi alla follia umana, e soprattutto “Il doloroso strazio di rivivere/ Tutto ciò che facesti, e fosti; la vergogna.[94]

Appena il Poeta è di nuovo solo espone la (non cristiana) dottrina del distacco (già vista), e con nuovo understatement dichiara che la storia può esser libertà. Si guardi a come svaniscono volti e luoghi,/ e noi stessi che come potemmo li amammo,/ per rinnovarsi, trasfigurati, in un’altra trama.[95] Da questo momento infatti l’understatement verrà impiegato per rivelazioni di teologia positiva: da Giuliana di Norwich (1342-1416), mistica inglese di rango (Santa per gli anglicani, Beata per i cattolici), e dalla Nube della Non-Conoscenza (The Cloude of Unknowyng), trattato anonimo inglese del XIV secolo. Che Eliot abbia scelto per il finale l’ottimismo teologico della prima e il sapore zen nel titolo della seconda è di nuovo un indice del suo cercare a Oriente un sostegno religioso.

Di Giuliana è interessante lo sfiorare l’eresia nella concezione di Dio Madre oltre che Padre – e quindi del suo amore incondizionato per tutti – nonché la sua idea di peccato. Eliot così infila la sua citazione: “Peccare è necessario, ma/ tutto sarà bene e/ Ogni sorta di cose sarà bene.”[96] L’arcaico Behovely, fra le pochissime maiuscole dei Quartetti, ha il senso religioso di necessario in quanto adatto, utile, giusto. Infatti per Julian of Norwich non solo il peccato non ci diminuisce agli occhi di Dio, ma ci mantiene umili e miti, consapevoli e pronti a tornare fra le braccia di Gesù Madre – e non per farci perdonare, perché peccare è solo il processo di apprendimento della vita.[97]

Ma Eliot subito ‘torna a bomba’, al presente storico nella Cappella:

Se penso, ancora, a questo luogo,/ E a persone, non sempre ammirevoli,/ Non strettamente legate da parentela o amicizia,/ Ma alcune dotate di un genio peculiare,/ Tutte giocate da un genio comune,/ Unite dalla contesa che le divise;/ Se penso a un re al cadere della notte,/ A tre uomini, e più, sul patibolo/ E ad alcuni che morirono dimenticati/ In altri luoghi, qui e in terra straniera,/ E a uno che morì cieco e calmo,/ Perché dovremmo celebrare/ Questi morti più dei morenti?[98]

I “morenti” sono tutti i vivi, non solo destinati a morire, ma già “uomini vuoti”. L’unico “morto cieco e quieto” è forse Milton, oppure Joyce, morto a Zurigo nel’41. Eliminando qualunque vuota retorica, soggiunge che dai vincitori e dai vinti si è imparato che c’è solo un partito, quello dei morti: tutto sarà bene, sì, ma “purificando il motivo della nostra supplica”. Così, ripresentandosi la colomba che spezza l’aria con incandescente terrore, le sue lingue indicano l’unica di-speranza possibile: scegliere d’esser redenti dal fuoco con altro fuoco[99]. Nient’altro che questo è l’Amore: “l’intollerabile camicia di fuoco/ che il potere umano non può togliere./ Noi possiamo vivere, sospirare soltanto/ Consumati da un fuoco all’altro.”[100]

Il canto prosegue e termina con ciò che si potrebbe chiamare l’anello del sacrificio, la religio con cui Eliot sposa la ‘sua’ Inghilterra, e con essa l’Europa cristiana in pericolo:

Qualsiasi azione/ non è che un passo verso il patibolo, verso il fuoco, giù nella gola del mare,/ o verso una pietra illeggibile – ciò da cui partiamo./ Moriamo coi morenti, nasciamo coi morti./ Così il momento della rosa e quello del tasso/ hanno uguale durata. Un popolo senza storia/ non si affranca dal tempo, perché la storia è una trama/ di momenti senza tempo. Così, mentre cade la luce/ d’un pomeriggio d’inverno nella solitaria cappella,/ la Storia è ora l’Inghilterra.”[101]

Avrebbe potuto terminare qui, ma come in musica così in poesia, compare talvolta l’esigenza di ribadire le movenze chiave (“Presto, ora, qui, per sempre”, v.252) magari a uso dello spettatore.  E così tornano l’Amore e la Sua Chiamata[102], il riconoscere il luogo dell’inizio come fosse la prima volta, i bambini nascosti nel melo uditi ridere, il <sarà bene ogni genere di cosa>, nella <semplicità totale>, in cui <il fuoco e la rosa sono tutt’uno>, ossia dove finalmente si possa vivere l’unità degli opposti.

X. Conclusione

Si può con Luzi convenire che “non vi è nella letteratura moderna cristianesimo più giustificato[103], riconoscendo però al tempo stesso che – mentre lo sperimentalismo poetico e critico di Eliot è sempre attualissimo – si rivelano fallaci i suoi tentativi di creare sincretismi o parallelismi (tantomeno esoterici) con teorie e pratiche sapienziali di culture non-europee (il “metodo mitico”)[104]. Nessuna via di fuga dal pessimismo cristiano: la verità eliotiana rifulge nel suo accorato appello alla solidarietà (in primis coi morti!) proprio nel momento del pericolo. Lo testimoniano anche gli interventi successivi ai Quartetti, What is a Classic ? (1945), le conferenze rivolte alla Germania The Unity of European Culture (1946)[105], il discorso The Good European (1951): “L’Europa è un organismo che non può godere di salute se non vi circola un’unica corrente sanguigna, che è la letteratura classica, greca e latina… Virgilio (con Dante) è il nostro ‘padre’ culturale, e poi Shakespeare” L’inglese, dunque, come nuovo latino ed Eliot stesso come nuovo Virgilio ? Sono interventi di estrema attualità politico-culturale: “Essere un non richiede una diminuzione di identità locali e nazionali o, dal lato dell’individuo e del linguaggio, una qualsivoglia riduzione dell’autostima, che è la base necessaria […] Dobbiamo avere più strette relazioni con gli stati con cui già scorre una simpatia forte e incorruttibile (vedi Francia con Inghilterra) […]”.

La Bibliografia del presente lavoro è dal Lettore riscontrabile sulle note a piè di pagina, più puntualmente utili che un elenco alfabetico generale di titoli. Tutte le traduzioni sono riprese dalle fonti indicate, ma riviste da chi scrive. I corsivi all’interno di citazioni sono sempre di chi scrive.

 

Nicola Licciardello

luglio-dic. 2019

[1] Il IV movimento del Quarto Quartetto di Eliot, Little Gidding, è stato musicato da Strawinskij nell’inno The Dove Descending Breaks the Air (1962).

[2] Ezra Pound, Dante dalle carte di Scheiwiller, a cura di Corrado Bologna e Lorenzo Fabiani, Marsilio 2015: aggiorna e stampa le bozze già Scheiwiller 1965 che erano a cura di Maria Corti.

[3] Si veda: Don Francesco Ricossa, Pound e la Teosofia, in “Sodalitium”, anno XXXI, n. 4, dicembre 2015.

[4] Demetres Tryphonopoulos, Pound e l’occulto. Le radici esoteriche dei Cantos, Mediterranee, Roma 1998.

[5] Musicista influenzato dalla Teosofia di Madame Blavatskij, associava i colori alle tonalità musicali.

[6] Simona Cigliana, Futurismo Esoterico (La Fenice 1996); Guido Andrea Pautasso, Vampiro futurista (Vanila 2018). Ma è già nutrito l’elenco di poeti e scrittori italiani affiliati alla Massoneria o almeno impegnati in una via esoterica contro il positivismo: Carducci, Pascoli, D’Annunzio, De Amicis, Collodi, Quasimodo, Capuana, Pirandello, Fogazzaro, etc.

[7] Cambridge University Press, Massachussetts.

[8] Le classificazioni sono sempre scivolose, ma il discorso sulla Poetica Quantica è interessante per le notevoli implicazioni. Samuel Matlack lo riprende (Quantum Poetics, The New Atlantis 2017) in un raffronto scienza-poesia che coinvolge il fisico Carlo Rovelli.

[9] Il genio di Alan Turing (Macchine calcolatrici e intelligenza, 1950) anticipava più drammaticamente: “Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato, potrebbe significare la differenza tra due avvenimenti molto diversi, come l’uccisione di un uomo un anno dopo, a causa di una valanga, o la sua salvezza”.

[10] Fisico iracheno all’Universita’ del Surrey, direttore di una serie di documentari per la BBC, spesso ritrasmessi dalla Rai.

[11]Giocava abbastanza bene, con poco stile ma con inesauribile energia e combattività” ricorda Massimo Bacigalupo dalle note del padre Giuseppe, che a Rapallo giocava a tennis con Pound (https://www.linkiesta.it/it/article/2018/10/10/nessuno-legge-ezra-pound-ma-ogni-sua-pagina-e-una-sorpresa/39681).

[12] Enorme in Italia il dibattito su questa intervista, solo parzialmente trasmessa dalla Rai. Si veda almeno: Angela Felice, In margine all’intervista televisiva di Pier Paolo Pasolini  Un’ora con Ezra Pound. (www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/…/ppp-intervista-ezra-pound-di-angela-felice).

[13] E. Pound, Dante, cit., p.167.

[14] Ivi, pp.27-78.

[15] L’edizione consultata da Pound è Il linguaggio segreto di Dante, “Optima”, Roma 1928.

[16] Rimandiamo a un approfondimento successivo le implicazioni di questo passaggio poundiano di grande interesse.

[17]Nor began nor ends anything./ Boy in the fruit shop would also have liked to write something./ but said: / The kindness, infinite of her hands./ Sea, blue under cliffs, or/ William murmuring: <Sligo in heaven> when the mist came/ to Tigullio. And the truth is in the kindness.”

[18] Così prosegue: “Così son Dante per un po’ e sono/ un certo François Villon, ladro poeta/ o sono chi per santità nominare / farebbe blasfemo il mio nome;/ un attimo e la fiamma muore./ Come nel centro nostro ardesse una sfera/ trasparente oro fuso, il nostro “Io”/ e in questa qualche forma s’infonde:/ Cristo o Giovanni o il Fiorentino;/ e poi che ogni forma imposta/ radia il chiaro della sfera,/ noi cessiamo dall’essere allora/ e i maestri delle nostre anime perdurano.”

[19] E. Zolla, Uscite dal mondo, Adelphi, Milano 1992, p.175.

[20] Articles of Agreement for a Treaty Between Great Britain and Ireland (6 dicembre 1921).

[21]John Synge, I and Augusta Gregory, thought/ All that we did, all that we said or sang/ Must come from the contact with the soil, from that/ Contact everything grew strong./ We three alone in modern times had brought/ Everything down to that sole test again,/ Dream of the noble and the beggar-man”.

[22] An Irish Airman Foresees his Death  (September 1913):  /…/”Those that I fight I do not hate/ Those that I guard I do not love;/ My country is Kiltartan Cross/ My countrymen Kiltartan’s poor,/ No likely end could bring them loss/ Or leave them happier than before./ Nor law, nor duty bade me fight,/ Nor public man, nor cheering crowds,/ A lonely impulse of delight”/…/.

[23] Da Easter 1916: “That is Heaven’s part, our part/To murmur name upon name,/ A s a mother names her child/ When sleep at last has come/ on limbs that had run wild.”

[24]When long ago I saw her ride/ Under Ben Bulben to the meet,/ The beauty of her country-side/ With all youth’s lonely wildness stirred,/ She seemed to have grownclean and sweet/ Like any roch-bred, sea-borne bird.”

[25]If I make the lashes dark/ And the eyes more bright/ And the lips more scarlet,/ Or ask if all be right/ From mirror after mirror,/No vanity’s displayed:/ I’m looking for the face I had/ Before the world was made. /…/

[26] E. Zolla, Storia del fantasticare (1964), sezione seconda: L’Inghilterra e lo spleen fantastico, ora in: Il serpente di bronzo, a cura di G.Marchianò, Marsilio 2015, p. 381. Si veda anche ID., Lo stupore infantile, Adelphi, Milano 1994 pp.203-213.

[27] Il brano prosegue affrescando il quadro con accenti ‘sincretisti’: “Credo che potrei trovare in una qualche osteria un mosaicista ‘filosofo’ che saprebbe rispondere a tutte le mie domande, poiché il sovrannaturale discende più vicino a lui che allo stesso Plotino (…) Credo che agli inizi della civiltà bizantina, forse mai prima di allora né dopo nella storia di cui si ha memoria, la vita religiosa, estetica e pratica erano tutt’uno, e che l’architetto e l’artefice (…) si rivolgevano parimenti alla massa e ai pochi. Il pittore, il mosaicista, coloro che lavoravano l’oro e l’argento, il miniaturista di libri sacri erano quasi impersonali (…), tutti presi dal loro soggetto che era la visione di un intero popolo.” Una chiara e ben documentata fonte d’informazione sull’esoterismo e il nazionalismo di Yeats è Cesare Catà (University of Macerata), Before Ireland was made. Il Nazionalismo Neoplatonico di W.B.Yeats (www.academia.edu).

[28] Rivista da chi scrive è qui la traduzione di Giorgio Manganelli – la migliore in italiano secondo Viola Papetti, Universita’ di Roma 3, in All’ombra del mago oscuro W.B.Yeats,  Studi Irlandesi. A Journal of Irish Studies, n.2 (2012), pp.143-154 (www.academia.edu). Delle quattro strofe, qui si riporta la terza e la quarta.

[29]Many times man lives and dies/ Between his two eternities,/ That of race and that of soul/And ancient Ireland knew it all”, in A.G. Stock, “Su Una visione”, in W.B.Yeats: His Poetry and Thought, Cambridge 1961, poscritto a Una Visione, cit.

[30] Così Eliot si autodefinva in For Lancelot Andrews (1928); anglocattolico dal 1927, dunque non al tempo de La Terra Desolata.

[31] E le Neo-Avanguardie (seconda metà ‘900) ne sono pervase e giustificate: si pensi all’iperironia di un Edoardo Sanguineti.

[32] Tale che solo 40 anni più tardi una Premier britannica potrà dichiarare che “la società non esiste”.

[33] In Tradition and the individual talent (1919, poi in The sacred wood, 1920); Tradizione e talento individuale, in Il bosco sacro, Milano 1967-2010.  Mario Praz riprende il discorso in T. S. Eliot poeta cristiano (“La Stampa”, Torino, 7 settembre 1934). Il suo richiamo alla Tradizione dissolve l’intento ‘alternativo’ dell’avanguardia, ma lo aiuta a esprimere più intensamente il degrado attuale.

[34] In Hamlet and His Problems, poi in The Sacred Wood, 1920 (Il bosco sacro), attribuendolo a Shakespeare.

[35] Eugenio Montale, Ricordo di T. S. Eliot, “Corriere della Sera” 6 gennaio 1965. Montale, che fu piacevolmente colpito dalla lettura vocale di Eliot, tradusse soltanto tre sue poesie, prendendone sempre più le distanze: si veda Ernesto Livorni, Montale traduttore di Eliot: una questione di “Belief”, (http://tdtc.bytenet.it/comunicati/livorni-montale.pdf). Il saggio esemplifica efficacemente i ‘tradimenti’ traduttivi montaliani poco rispettosi del cristianesimo eliotiano. Più avanti si veda il suo giudizio su La terra desolata.

[36] Hugo Friedrich, La lirica moderna, Garzanti, Milano 1961.

[37] Su “The Dial”, novembre 1923.

[38] Si veda l’interessantissimo studio, transculturale e illustrato: Riōsuke Ōhashi, Kire: il bello in Giappone, Mimesis, Milano 2017.

[39] Oikosofia. Dall’intelligenza del cuore all’ecofilosofia, QUADERNI DI STUDI INDO-MEDITERRANEI X (2017), Mimesis 2018.

[40] Ineguagliata l’agile e accuratissima La Terra Desolata, a cura di Alessandro Serpieri, BUR, Milano 1985, vii edizione nel 2018.

[41] Marjorie Perloff (The Futurist Moment: Avant-Garde, Avant-Guerre, and the Language of Rupture (Univ. of Chicago Press 2003) e Kenneth Goldsmith (Uncreative Writing: Managing Language in the Digital Age, Columbia Univ. Press 2010) confermano la prassi citazionale e la recriture, quali logiche implicate dalla postmodernità digitalizzata.

[42] E infatti, nella crisi sofferta in clinica a Losanna, sul Sermone del Fuoco (quadro III del poemetto) che a un certo punto gli esce di getto, così confessa Eliot: “fu il sollievo da una personale lagnanza contro la vita, un pezzo di lamentela ritmica.”

[43] J. Weston, Indagine sul Santo Graal, Sellerio, Palermo 1994; J. Frazer, Il ramo d’oro, Bollati Boringhieri, Torino 1990.

[44] Simbolo sacrificato e poi fatto risorgere in una varietà di riti non solo mediterranei (Tammuz, Osiride, Adone, Attis, Orfeo; nel Ṛg Veda non viene sacrificato un dio ma il Cavallo) – la cui leggenda riportano i testi medievali Perceval o Conte du Graal (Chrétien de Troyes), Le Roman de l’estoire dou Graal, Merlino, Perceval (Robert de Boron), Parzival (Wolfram von Eschenbach).

[45] Ma nulla rivela sull’arciduca Rodolfo, le cui gesta la pruderie vittoriana unita al fiuto di poeta avrebbero potuto fargli intuire.

[46]Unreal City,/ Under the brown fog of a winter dawn,/ A crowd flowed over London Bridge, so many,/ I had not thought death had indone so many./ Sighs, short and infrequent, were exhaled/ And each man fixed his eyes before his feet” (vv. 60-65).

[47] Così prosegue: “Le unghie rotte di mani sporche./ La mia famiglia gente umile che non aspetta/ niente./ la la// A Cartagine poi venni// Bruciando bruciando bruciando bruciando/ O Signore Tu mi cogli/ O Signore tu cogli// bruciando.” (“The broken fingernails of dirty hands./ My people humble people who expect/ Nothing./ la la/ To Carthage then I came// Burning burning burning burning/ O Lord Thou pluckest me out/ O Lord Thou pluckest// burning”).

[48] 5, 2 (anziché 5, 1 come scrive l’Autore).

[49] Si verificherà che i Deva eseguono con più cura, e perciò sono superiori agli Asura: vedi R. Panikkar, I Veda, BUR 2016, p.512.

[50] Quest’ultima notazione riprende quella pessimistica di Herman Hesse sulla Rivoluzione russa in Blick ins Chaos.

[51] Annota Eliot: come accade nell’estremo stress di certe spedizioni polari.

[52] Quest’opera di Stravinskij (1909) segna l’inizio della collaborazione (L’Oiseau de Feu, Le Sacre) col coreografo Sergej Djagilev.

[53] “Pace che sorpassa l’intelligenza”, annota l’Autore.

[54] Montale traduttore di Eliot, in Livorni, op. cit., p.143.

[55] Quartetto di Olivier Messiaen, dedicato all’Apocalisse di Giovanni, composto nel 1940 nel campo di concentramento Stalag VIII-A, e lì eseguito il 15 gennaio 1941. Una junghiana sincronicità con i Quartetti eliotiani è troppo forte per ignorarla. La struttura in 8 movimenti (Liturgie de cristal, Vocalise pour l’Ange qui annonce la fin du Temps, Abîme des Oiseaux, Intermède, Louange à l’Éternité de Jésus, Danse de la fureur pour les sept trompettes, Fouillis d’arcs-en-ciel, Louange à l’immortalié de Jésus), le note di Messiaen e l’esito musicale agonico ne provano il carattere mistico e di avanguardia, al centro della tragedia storica, come per i Quartetti di Eliot.

[56] In tal direzione le letture (anche vocali) più significative dei Quartetti: Angelo Tonelli, Raffaele La Capria, Emilio Clementi.

[57]La classicità magnetica dei Quartetti di Eliot tradotti da Raffaele La Capria”, “Il Foglio” 5 gennaio 2014, appena uscita la preziosa edizione Damiani con le illustrazioni di José Muñoz).

[58] Partendo dall’idea che vi è un’Unica Tradizione comune all’umanità, che parla lingue diverse a seconda della cultura.

[59] Nome di una casa di campagna visitata da Eliot nelle Cotswold Hills, Gloucester.

[60] Burnt Norton, vv. 9-10: What might have been and what has been/ Point to one end, which is always present.

[61] Ivi, vv. 62-63 e 86-90: At the still point of the turning world. Neither flesh or fleshness;/ Neither from nor towards; at the still point, there the dance is […] But only in time can the moment in the rose-garden/ The moment in the arbour where the rain beat,/ The moment in the draughty church at smokefall/ Be remembered; involved with past and future./ Only through time time is conquered.

[62] Ivi,vv.86-89: But only in tome Can the moment in the rose-garden,/ The moment in the arbour where the rain beat,/ The moment in the draughty church at the smokefall/ Be remembered: involved with past and future./ Only through time time is conquered.

[63] Così parlò Zarathustra, sez. III, La Visione e l’enigma, 2, 28-44, p.192 (trad. M. Montinari), Adelphi vol. VI, 1973.

[64] Ivi, vv. 146-149: the end precedes the beginning,/ And the end and the beginning were always there/Before the beginning and after the end./ And all is always now.

[65] Villaggio del Somerset vicino al mare, da cui nel XVII secolo era partito per l’America Andrew Eliot antenato del poeta, e nel cui cimitero il poeta è ora sepolto.

[66] In my beginning is my end. Of your kindness, pray for the soul of Thomas Stearns Eliot, poet. In my end is my beginning. Ma la derivazione dichiarata è dal motto en ma fin gît mon commencement, che figurava nei lavori di ricamo di Mary Stuart, verosimilmente ispirato al titolo d’una composizione polifonica di Guillaume de Machaut.

[67] Little Gidding, vv. 226-227: Every phrase and every sengtence is and end and a beginning/ Every poem is an epitaph.

[68] Terzo Quartetto (1941). Il nome proviene da Les trois sauvages, gruppo di rocce con un faro, sulla costa nordest di Cape Ann, Massachusetts. Con la famiglia nell’infanzia Eliot frequentava la località.

       [69] vv.49-55: Where is there an end of it, the soundless wailing,/ The silent withering of autumn flowers/ Dropping their petals and remaining motionless;/ Where is there an end to the drifting wreckage,/ The prayer of the bone on the beach,/ the unprayable Prayer at the calamitous annunciation?// There is no end, but addition […]

[70] Dry Salvages, vv. 124, 129-131: I sometimes wonder if that is what Khrisna meant-[…]/ The way up is the way down, the way forward is the way back./ You cannot face it steadily, but this thing is sure,/ That time is no healer: the patient is no longer here.

[71] Dry Salvages, vv. 155-162, 169-170 : At the moment which is not of action or inaction/ You can receive this: – That is the one action/ (and the time of death is every moment)/ Which shall fructify in the lives of others:/ And do not think of the fruit of action./ Fare forward./ […] Not fare well,/ But fare forward, voyagers.

[72] Burnt Norton vv. 43-44: Go, go, go, said the bird: human kind/ Cannot bear too much reality.

[73] Little Gidding, vv.157-159: Not less love but expanding/ Of love beyond desire, and so liberation/ From the future as well as the past.

[74] Ivi, vv. 159-162: love of a country/ Begins as attachment to our own field of action/ And comes to find that action of little importance/ Though never indifferent.

[75] Dry Salvages, vv. 224-227: And right action is freedom/ From past and future also./ For most of us, this is aim/ Never here to be realised.

[76] East Coker, vv. 110-113: And we all go with them, into the silent funeral,/ Nobody’s funeral, for there is no one to bury./ I said to my soul, be still, and let the dark come upon you/ Which shall be the darkness of God.

[77] East Coker vv. 134-146: You say I am repeating/ Something I have said before: I shall say it again./ Shall I say it again ? in order to arrive there,/ To arrive where you are, to get from where you are not,/ You must go by a way wherein there is no ecstasy./ In order to arrive at what you don’t know/ Yiu must go by a way which the way of ignorance./ In oder to possess what you do not possess/ You must go by the way of dispossession./ In order to arrive at what you are not/ You must go through the way in which you are not./ And what you do not know is the only thing you know/ And What you own is what you do not own/ And where you are is where you are not.”

[78] Traduce ogni segno cinese (riportato) in 5 o 6 letture possibili Augusto Shantena Sabbadini, TAO TE CHING, Urra-Apogeo, Milano 2009. Un altro esempio, dal Cap. 7: “Cielo e terra durano a lungo perché non vivono per se stessi. […] Il saggio non avendo fini personali, può realizzare fini personali; o dal Cap. 25: “[…] Grande significa partire, partire significa andare lontano, andare lontano significa ritornare. […]

[79] O il Discorso della Pianura di Luca (6, 17-49).

[80] Para venir a lo que gustas/ has de ir por donde no gustas./ Para venir a lo que no sabes/ has de ir por donde non sabes./ Para venir a poseer lo que no posees/ has de ir por donde no posees./ Para venir a lo que no eres/ has de ir por donde no eres / […]”: Juan de la Cruz, Opere, a cura di P.P.Ottonello, Utet 1993, qui in: Anna Serra Zamora, Mappa Animae. La Visione dell’interiorità in san Giovanni della Croce, in La visione, a cura di F. Zambon, edizioni Medusa, Milano 2012, p. 160.

[81] Si veda Juan de la Cruz, Poesie, a cura di G.Agamben, Einaudi 1974: “Lullo, nel Libro di Amico e Amata si era fatto portavoce dei sufi: << I Saraceni hanno taluni uomini religiosi e fra questi sono persone dette sufi, le quali hanno parole d’amore ed esempi abbreviati per infondere molta devozione…>>. La parola Sufi semplicemente viene da suf = lana, la stoffa del loro protettivo abito.

[82] Este saber no sabiendo, “Questo sapere non sapendo”, Es de tan alto poder,/ Que los sabios arguyendo/ Jamás le pueden vencer;/ Que no llega su saber/ A non entender entendiendo,/ Toda sciencia trascendiendo (“ha così alta potenza/ che i savi coi loro argomenti/ non possono vincerlo;/ perché il loro sapere non giunge/ a non intendere intendendo/ ogni scienza trascendendo”).

[83] IV: Vivo sin vivir en mí,/ Y de tal manera espero/ Que muero porque no muero […] Sácame de aquesta muerte,/ Mi Dios, y dame la vida; […] ¡Oh mi Dios ! ¿cuándo será ?/ Cuando jo diga de vero:/ Vivo ya porque no muero […]; X: Por toda la hermosura/ nunca jo me perderé/ Si no por un no sé qué/ Que se alcanza por ventura.

[84] East Coker, vv. 172-74 ; 176-78: So here I am, in the middle way, having had twenty years/ -Twenty years largely wasted, the years of l’entre duex guerres-/ Trying to learn to use words  […] one has only learnt to get the better of words/ For the thing one no longer has to say, or the way in which/ One is no longer disposed to say it.

[85] Burnt Norton vv.97-98: The only wisdom we can hope to acquire/ Is the wisdom od humility: humility is endless.

[86] Dry Salvages vv. 203-206: We must be still and still moving/ Into another intensity/ For a further union, a deeper communion/ Through the dark cold and the empy desolation.

[87] Burnt Norton vv.110-112: Eructation of unhealthy souls/ Into the faded air, the torpid/ Driven on the wind that sweeps the gloomy hills of London,/ Hampstead e Clerkenwell, Campden e Putney,/ Highgate, Primrose e Ludgate.

[88] East Coker vv.23-46: In that open field/ If you do not come too close […]/ On a summer midnight, you can hear the music/ Of the weak pipe and the little drum/ And see them dancing around the bonfire/ The association of man and woman/[…]/ Two and two […]/ Holding each other by the the hand or the arm/ […] Round and round the fire/  Lifting heavy feet in clumsy shoes,/ Earth feet, loam feet, lifted in country mirth/ Mirth of those long since under earth/ Nourishing the corn. Keeping time,/ Keeping the rhythm in their dancing/ As in their living in the living seasons/ The time of the seasons and the constellations/ The time of milking and the time of harvest/ The time of the coupling of man and woman/ And that of beasts. Feet rising and falling./ Eating and drinking. Dung and death.

[89] East Coker, vv. 157-171: The whole earth is our hospital/ Endowed by the ruined millionaire,/ Wherein, if we do well, we shall/ Die of the absolute paternal care/ That will not leave us, but prevents us everywhere./ […] The dripping blood our only drink,/ The bloody flesh our only food:/ In spite we like to think/ That we are sound, substantial flesh and blood–/ Again, in spite of that, we call this Friday good.

[90] Villaggio dell’Huntingdonshire, famoso per la comunità religiosa fondata nel 1626 da Nicholas Ferrar, affine a Port Royal. Il re Carlo I la visitò nel 1633 e poi nel 1646, fuggendo inseguito da Cromwell – il quale la soppresse. Eliot lo visita nel 1936.

[91] Eliot si mette al riparo dai bombardamenti di Londra andando nel Surrey.

[92] Ivi, vv.64-65: Dead water and dead sand/ Contending for the upper hand.

[93] Near the ending of interminable night/ At the recurrent end of the unending.

[94] ivi, vv.138-139: The rending pain of re-enactment/ Of all that you have done, and been; the shame.

[95] Ivi, vv. 163-166: History may be freedom. See, now they vanish,/ The faces and places, with the self which, as it could, loved them,/ To become renewed, transfigured, in another pattern.

[96] ivi, vv.166-169: Sin is Behovely, but/ All shall be well, and/ All manner of thing shall be well.

[97] Giuliana di Norwich, Libro delle rivelazioni (passim), Áncora, Milano 2003; D.S. Brewer, Revelations of Divine Love, 1998.

[98] Ivi, vv.169-181: If I think, again, of this place,/ And of people, not wholly commendable,/ Of no immediate kin or kindness,/ But of some peculiar genius,/ All touched by a common genius,/ United in the strife which divided them;/ If I think of a king at nightfall,/ Of three men, and more, on the scaffold/ And a few who died forgotten/ In other places, here and abroad, / And of one who died blind and quiet/ Why should we celebrate/ These dead men more than the dying?

[99] Ivi, vv.204-206: The only hope, or else despair/ Lies in the choice of pyre or pyre/  To be redeemed from fire by fire.

[100] Ivi, vv. 208-213: Love is the unfamiliar Name/ Behind the hands that wove/ The intolerable shirt of flame/ Which human power cannot remove./ We only live, only suspire/ Consumed by either fire or fire.

[101] vv.226-238: And any action/ Is a step to the block, to the fire, down the sea’s throat/ Or to an illegible stone: and that is where we start./ We die with the dying:/ See, they depart, and we go with them./ We are born with the dead:/ See, they return, and bring us with them./ The moment of the rose and the moment of the yew-tree/ Are of equal duration. A people without history/ Is not redeemed from time, for history is a pattern/ Of timeless moments. So, while the light fails/ On a winter’s afternoon, in a secluded chapel/ History is now and England.

[102] Tematizzato nella Nube della Non-Conoscenza, quale momento d’illuminazione che non cerca spiegazioni – le quali sempre aumentano la presunzione – ma si affida direttamente all’esperienza d’amore, frutto della preghiera del silenzio.

[103] M. Luzi, Grandezza di Eliot, “L’Approdo” V, XI, Roma 1965: “La grandezza di Eliot è nel suo insegnamento di umiltà e concretezza: egli non ignora e non rifiuta il carattere frammentario, i movimenti incoerenti e frenetici del mondo moderno: se li addossa anzi, li porta in sé come stimmate del tempo, ne diviene testimone e complice; ma non per giustificare una caduta e tanto meno una rinunzia […] rifiuta il canto di qualsiasi altra sirena che gliene offuschi la coscienza e ammorbidisca la presa. Eliot cammina trascinando dietro di sé tutto questo peso…e lentamente, al fondo dell’esperienza sofferta, trova la fede: severa, ardua, che non offende il dolore del mondo ma lo santifica […] Non vi è nella letteratura moderna cristianesimo più giustificato. Il male diventa espiazione, il tempo si riconnette all’eterno.

[104] Si veda The Idea of a Christian Society, London 1939; trad. it. Milano, 1948

[105] Si veda Europeista  ma non troppo: Eliot ci spiega chi è il buon Europeo, in “Pangea” 29 marzo 2019.

 

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