EZRA POUND: RIMANE CIO’ CHE PIU’ HAI AMATO
di Nicola Licciardello
Presentato al Centro di Ricerca Ezra Pound di Merano, Ho cercato di scrivere Paradiso, libro-intervista di Alessandro Rivali alla figlia di Pound Mary de Rachewiltz[1] è l’ultimo episodio della rivisitazione italiana del poeta, ormai senza pregiudizi ideologici[2]. Il libro trasmette anzi un’atmosfera rilassata di libere conversazioni, sviluppi con variazione del tema, personaggio o ricordo personale – un andamento jazz, coerente con la forma della scrittura poundiana – tesa a risolvere ritmicamente l’impossibilità di isolare le rotte narrative nell’oceano ormai globale di tutte le culture. Si da’ spazio alla tessitura di rapporti fra Pound e gli autori italiani, dagli ermetici agli editori come Vanni Scheiwiller – ma le citazioni più ampie sono dai poeti amici diretti di Pound, da Eliot a Hemingway a Williams, e da quelli di cui la stessa Mary de Rachewiltz si è occupata e ha tradotto in italiano: Jeffers, Cummings, Levertov.
Di Montale è noto il giudizio inizialmente limitativo che diede dei Cantos, mentre di Ungaretti Pound definì con ammirazione “intraducibile” il suo “m’illumino d’immenso”. Di Quasimodo si racconta il generoso intervento alla Statale di Milano nel 1961 per presentare Pound: “La sua ideologia è opposta alla mia, ma io onoro la poesia, una delle più importanti del mondo”. Quasimodo aveva tradotto in italiano Vana da A lume spento, la raccolta iniziale e autofinanziata del poeta americano appena sbarcato a Venezia: “/…/ invano ho detto al mio cuore ci sono poeti più grandi di te /…/ sempre la sua risposta è stata ‘ancora un canto’/…/ le parole sono foglie, vecchie foglie gialle già di primavera/ portate qua e là dal vento, vanno cercando un canto”. La parola canto è così emblematica di Pound, non solo perché Cantos è l’opera interminata della sua vita, con cui ha gareggiato con Dante stesso oltrepassando il numero 100 (“ho cercato di scrivere Paradiso”), ma perché la sua celebre oralità trasmette alla sua poesia una sorta di energia biblico-profetica, paradossale perché in contrasto con la sua vocazione umanistica.[3]
Di Cummings Mary ricorda come ad Harvard citava Rilke nell’affermare che solo l’amore può intendere la poesia, e la sua desacralizzazione dichiarando che “i poeti scrivono poesie perché è l’unica cosa che sanno fare, cercano di capitalizzare le loro nevrosi, ma un idraulico è più onesto”; però anche la delicatezza di una poesia a sua madre, e quella dedicata all’amico Pound[4]. Un’altra poeta cara a Mary è Denise Levertov, una ex “Black Mountain College” (contro la guerra in Vietnam) insieme a Robert Creeley, Robert Duncan, Charles Olson… Nella poesia Il saggio dice: “Il gatto mangia le rose:/ è fatto così/ Non fermarlo, non fermare/ il mondo che gira/ le cose stanno così”… e nella poesia 1961: “Quest’anno i grandi/ vecchi ci lasciano/…/ Non muoiono/ si ritirano /…/ S’arriccia il buio// nel vento, piccole sono/ le stelle all’orizzonte/…/ ci hanno dato la lingua da usare/…/ su questa interminabile/ strada pare che non si giunga/ al mare se alla fine/ non ci si pieghi un poco”/…/ . E poi Robinson Jeffers (di cui ha tradotto La Cretese, Scheiwiller 1961): “La sua poesia è un inno alla natura, alle forze telluriche, libere e purificate da quel microbo immondo che è l’uomo”. Mary lo traduce su suggerimento di Eva Hesse e lo va a trovare nella casa sull’oceano (“sea lions”) che si era costruito. “I poeti hanno solo bisogno di silenzio. Ma quella California non esiste più, i ricchi hanno disboscato e costruito ville. Pound non lo lesse, perché amava il Mediterraneo, la Grecia, i Classici. Jeffers invece era come nordico, scandinavo”. Un brano da Campofame (Hungerfield), dedicato alla moglie Uma: “Se il tempo è solo un’altra dimensione/ allora tutto cio’ che muore/ resta vivo, non annientato, tolto/ solo alla vista. Uma è ancora viva/anni fa: facciamo all’amore come falchi avidi/…/ Si commuove di gioia a tanta bellezza/…/ Non serve. Uma è morta, e io/ Resto ad aspettare la morte come albero spoglio/ Che aspetta le radici marciscano e il tronco cada”.
Mary dunque predilige la sincerità poetica fuori da convenzioni accademiche. Fin da piccola traduttrice designata[5] del padre, cita per esteso il canto XLIX, ispirato allo Sho-Sho-Hakkei. Otto scene lungo il fiume Sho-Sha, che la madre Olga le regalò in una versione su cartone e seta.[6] E con tenerezza ricorda il regalo del padre per il suo matrimonio con Boris de Rachewiltz: la traduzione di una poesia cinese, preceduta da <J’ayme, Donc Je Suis>: “Tanto è bella la casa di colei/ che a lui s’accompagna, come ramo d’ibisco/ bella, così bella/ Signora di Chang/ il tintinnio delle gemme/ che pendono dalla sua cintura/ durerà/ sino alla fine dei tempi/ per la tua sincerità”.
I trovatori e i Provenzali sono l’apprendistato del giovane Pound, che ancora in Usa li studia e traduce quali bardi e aedi omerici alle origini della cultura europea, Dante è la sintesi che lui stesso vuol superare coi Cantos da consegnare all’America-mondo. Lo intriga lo snodo di François Villon, che essendo “buono-crudele, onesto-disonesto, rovinato dalla cattiva economia, rappresenta la fine di una tradizione (‘où sont les neiges d’antan ?’, ‘dove sono le nevi di una volta ?’)”, e gli diviene il simbolo rivoluzionario della cultura europea: “l’arte nasce dal male”. Come per Cavalcanti, lo volge in musica perché “non è traducibile, la musica sopperisce dove non arriva la parola”. Ma la stessa Mary afferma che Pound ha sfatato il mito della intraducibilità della poesia, proprio in quanto “miglior fabbro” (del parlar materno)[7]. Del lavoro artigianale Mary ritesse le lodi, perché è esattamente il fulcro della modernità poundiana fare poesia sulla poesia, poesia al quadrato (e al cubo o all’ennesima). Se tale processo, sempre in progress, endless poem, è la forma ineludibile dell’epica moderna, il pietoso raccogliere i frammenti non solo della tradizione occidentale, ma dei Classici di tutte le altre, che nel tempo vanno sfaldandosi – “These fragments you have shelved (shored)”, “Questi frammenti hai dal naufragio… / (scaffalati)” traduce dal Canto VIII lo stesso Pound, come Eliot al termine della Terra Desolata: “These fragments I have shored against my ruins” (“Con questi frammenti ho rinforzato le mie rovine”) – se cioè il naufragio è il destino, che il poeta stesso ‘rinforza’ – non siamo ancora alla fine, non siamo all’Apocalisse, e la Mary non ha alcuna inclinazione verso una lettura di questo tipo, invece ribadisce il valore salvifico, umanistico della poesia paterna. Quattro decenni più tardi, all’uscita dal manicomio, Pound infatti nel Canto CX ritorna su quei versi: “From time’s wreckage shored,/ these fragments shored against ruin, and the sun jih/ new with the day” (“Dal naufragio del tempo scaffalati,/ questi frammenti salvati dalla rovina/ e il sole jih/ ogni giorno nuovo”). Nessuna dissoluzione del soggetto dunque: anche se non compatto come a Londra prima e durante la Prima Guerra mondiale – quando su “The New Age” (l’Età Nuova) Pound stigmatizzava l’usura del lavoro e dell’arte invocando l’uomo artigiano – come allora, l’io ha la missione essenziale di ricordarlo. Mary torna più volte sui Canti pisani, fra cui l’LXXXI, la cui seconda metà è fra le cose più degne scritte dal padre: “Ciò che sai davvero amare rimane/ il resto è scoria/ Ciò che sai amare è il tuo vero retaggio/ Ciò che sai amare non ti sarà strappato/…/ Deponi la tua vanità, non è l’uomo/ che ha fatto il coraggio, o l’ordine o la grazia/.[8]
La nota di umiltà che traspare negli ultimi Drafts & Fragments – il CXVI conclude: “Ammettere l’errore senza perdere il giusto:/ Carità ho avuto talvolta,/ Non so farla scorrere./ Un po’ di luce, come un barlume / ci riporti allo splendore” – è, seppur ‘eroica’, confessione e richiesta di perdono per non aver saputo scrivere quel paradiso terrestre che si era prefisso. E dunque l’intervista da ottantatreenne concessa a Pasolini, pochi anni prima della scomparsa, è davvero un passaggio di testimone, a un figlio ‘degenere’ (comunista e omosessuale), ma pur poeta, figlio e intelligenza del tempo. Naturalmente il riconoscimento è reciproco: Pier Paolo, ricordandogli il “patto” poetico che da giovane Pound aveva rivolto a Whitman (omosessuale), cerca e ottiene il suo riconoscimento da parte di un ‘padre’ fascista (com’era il suo). Entrambi accomunati da una lotta senza quartiere al capitalismo omologante, una lotta pagata l’uno col confino, l’altro con la morte. Ma Pound aveva affermato: “se un uomo non e’ disposto a morire per la sua idea, o questa o lui non vale niente.”
Nicola Licciardello
25 giugno 2019
NOTE
[1] Mondadori 2018 (copertina BETTMANN/GETTY IMAGES 1958).
[2] Quando nel ’58 Pound viene liberato e i giornali italiani ne danno notizia, il più netto è Indro Montanelli sul “Corriere della sera”: “Delle opinioni politiche di un poeta possono aver paura solo gli sciocchi, e gli americani lo sono stati, non vedo perché imitarli, io spero che torni in Italia”. Pound dichiarerà: “Tutta l’America è un manicomio, io avuto la fortuna di trascorrerla in un manicomio vero” – dove ha potuto continuare a scrivere e incontrare amici. Il libro non menziona pero’ la recente assoluzione di CasaPound nell’usarne il nome, ne’ l’evento che nel 1968 ruppe il silenzio dell’anziano poeta, l’intervista a Pasolini.
[3] Il “sovrasenso apofatico di un linguaggio simbolico che riflette non una teologia negativa, ma una ricerca interiore e tutta umana del paradiso in terra” dice Roberta Capelli, condirettrice del Centro Ricerche Pound, ma poi aggiunge: “Pound e’ un cosmo”.
[4] “Questa mente ha fatto la guerra/ essendo generoso/ questo cuore ha potuto osare/ i non-cuori possono meno// le non-menti devono temere/ perché ? Perché/ che sudiciume c’è qui// Le non-vite urlano// su colui sul quale hanno defecato/ hanno defecato encore/ lui ha riso e ha sputato/ questa vita potrebbe osare/ liberamente dare come da’ un amico/ non quelli che si ammazzano di lavoro/ non-individui per prestare// perché la speranza della speranza/ deve tubare e fare ‘booh’/ può darsi che si pavoneggi oppure strisci/ ingenerosi che/ scimmiottano abilmente scopi/ che non osano condividere/ gente così si fa un nome/ questo poeta ha fatto la guerra// per il quale il nulla e il tutto sono sole e luna/ giunga il bello o il brutto/ lui procede solo// osando osare/ per la gioia della gioia”/…/.
[5] Suo è il Meridiano Mondadori dei Cantos 1985.
[6] “/…/ Oche selvatiche planano sulle sirte/ nuvole accerchiano la finestrella/ distesa d’acqua; si diradano le oche d’autunno/ le cornacchie gracidano sulle lampare/ una luce percorre l’orizzonte a nord; dove i ragazzi pungono sassi per i gamberi./ nel 1700 giunsero i Tsung tra questi laghi di collina./ Una luce percorre l’orizzonte a sud/ Dovrebbe lo stato creando ricchezze indebitarsi ?/ Questa è infamia; è Gerione/ Questo canale ancora va a TenShi / anche se il vecchio re lo costruì per diletto/ KEI WUN RAN KEI/ KIU MAN MAN KEI/ JITSU GETSU KO KWA/ TAN FUKU TAN KEI/ Su col sole; al lavoro / tramonto; a riposo/ scava il pozzo e bevi l’acqua / zappa il campo e mangia il grano/ Il potere imperiale ? per noi cos’è ?// La quarta dimensione: la quiete./ E il potere delle belve”.
[7] Come nella famosa genealogia dantesca in cui Guido Guinizzelli addita in Arnaut Daniel chi in “versi d’amore e prose di romanzi/ soverchiò tutti” (Purg. XXVI, 112-119), Pound riprende l’espressione miglior fabbro nel cap. II de Lo spirito romanzo, ed Eliot gliela restituisce nella dedica alla Waste Land, da Pound opportunamente falcidiata.
[8] Il Canto così prosegue: “Deponi la tua vanità, dico deponila !/ Impara dal mondo verde quale posto ti spetta/ per gradi d’invenzione o di vera maestria/…/ Dòminati e gli altri ti sopporteranno/…/ avido di distruggere, avaro di carità/ deponi la tua vanità, dico deponila !/ Ma aver fatto invece di non fare/ questa non è vanità/aver bussato con discrezione/Perché un Blunt ti apra/ Aver colto dall’aria una tradizione viva/ O da un occhio fiero ed esperto l’indomita fiamma/ Questa non è vanità./ L’errore è tutto nel non fatto /nella diffidenza che tentenna.”