8 aprile 2012
Questo brano conclude la prima parte di Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, un’opera ‘monstruo’ come l’animale cui si riferisce. E’ un’opera che a leggerla tutta, nell’edizione originale (Mondadori 1975, 1257 pagine) lascia come svuotati, incapaci di leggere e scrivere. Questo era il fine dichiarato: 15 anni di lavoro per “far coincidere i fatti narrati con l’espressione, la scrittura con l’occhio e con l’orecchio, rifiutando qualunque modulo che mi apparisse parziale, astratto o intuitivo, cioè non completo e assoluto …riscrivere, rifondare il periodo e ‘mirare’ il vocabolo finché non giudicavo d’avere raggiunto l’espressione completa, fino al momento in cui guadagnavo la certezza che il risultato ottenuto fosse quello giusto e definitivo, che la totalità lessicale, sintattica e semantica fosse realizzata, che, sulla pagina finita, la scrittura ‘parlasse’ ”. Che la scrittura fosse divenuta interamente voce, narrazione orale: come se una voce ci avesse raccontato per giorni, e giorni e notti una storia – fantastica, incredibile, grave e tenebrosa, ma una storia ‘vera’ (nella breve stagione della tanto attesa pubblicazione si disse: Omero, la Bibbia, Melville, Joyce…), perché ‘vera’, completa è la voce narrante, che proprio come sa fare un antico narratore, interpreta tutti i personaggi, traduce e ripete, ‘canta’ l’intera, tragica storia. E che cosa si può ancora leggere dopo che un narratore così ci ha incantato davanti all’abisso del mare per un tempo che ci pare infinito, perché ogni cosa è stata detta in ogni suo aspetto possibile ? D’Arrigo è veramente l’Orca che ha s-terminato la scrittura del Novecento. Così, è un paradosso che quest’opera intrinsecamente orale nessuno abbia provato a leggerla dal vivo, a darle una voce ‘reale’. E così, esortato anche da qualche amico, ho provato a inciderne qualche brano, essenzialmente perché è il siciliano la lingua darrighiana che fagogita ogni altra, che l’assorbe in un personalissimo sincretismo, come l’ “antropofagia” culturale del Brasile – e la mia lingua nativa è il siciliano.
Ciccina Circé è più di Circe-Calipso, è qualcosa di archetipico, sirena e maga, iper-Femmina (“femminota”): prostituta sacra, traghettatrice contrabbandiera, ammaliatrice di delfini (“le fere”) e annuciatrice di morte – che qui abbandona al suo destino il protagonista, quasi comicamente disperato di non aver capito che cosa ha vissuto con lei.
2 commenti
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Augh! Stato una settimana a Sanpa. Incontrato Lucia Wataghin e parlato di te. Prenderò in mano per la prima volta Horcynus Orca attento alla ‘voce’ narrante. Ti mando a parte un ricordo di Carmeleo Bene che mi hanno chiesto per i 10 anni dalla morte.
A giugno, metà-fine sarò in Italy.
Ciao. P.
La dolorosa arcaica infelicità della donna che continua ad essere nel linguaggio che incatena e soffoca. Prigionia di alghe e di sterminata oscurità insulare. Endogamie infernali.
Non ho mai avuto il coraggio di leggere questo capolavoro. Grazie Nicola per avermi condotta in questo antro della Sibilla, per avermi invitata ad immergermi in questo mare aperto e profondissimo. Splendida lettura in cui risuonano tutte le correnti insidiose della parola dindìo stralunato che trascina verso il naufragio ineluttabile. Un colosso è questo libro! Un breviario infernale!