QUALCOSA DI BENE ANCORA
24 marzo 2012
‘L MAL DE’ FIORI
Sergio Fava enumera le figure di questo corpus barocco (controcanto anche alla scultura, dal Bernini a “Michelaccio l’Angelo”, al neoclassico “MinchioneWinckelmann”) – figure che sono poi quelle prosodiche di Bene “straniero alla sua lingua” (e al pubblico): sprezzatura stilnovista, ariostesca (o meglio, cervantina), maccheronica fierezza, acido corrosivo di Laforgue, eroismo rabelaisiano del ridicolo, virulenza comica, costante hölderliniana e campaniana. Sono le tonalità emotive, tipiche e popolari, qui disanimate e straniate in una gnostica “nostalgia delle cose che non furono mai”, nella “nolontà di non essere mai stati” – bordone andante un poco maestoso del poema. “Non mi ero mai imbattuto nella nostalgia delle cose che non furono mai” dice nell’ autointervista, ma il “da sempre mancato, il nomadismo” contamina tutto il poema come la “similvita”: dalla donna e l’amore (“cosa eri, tra cose”, “questo ch’è tuo non essere mai stata”, “Noi non ci apparteniamo. E’ il mal de’ fiori / Tutto sfiorisce in questo andar ch’è star / inavvenir / Tutto è passato senza incominciare”), all’eros stesso – la cui imperdonabile colpa è di essere anche Logos, pulsione coito-logica della copula, ciò che – dicendo è – produce l’orrore della maternità e “resurrezione” (nel senso di moltiplicazione della specie).
Una sintassi ossimorica màcina il flusso della natura in-animata dal dolore: “Vanito ‘n apparir Somiglia ‘l sole / in sorger tramontato”, “Di non morir si dole forse di / non essere quel fiore non mai stato”. Dove mai può esistere con-jugazione, e dove gli enjambement spezzano il ritmo della frase, la logica della voce – alla quale anziché darlo, tolgono il respiro. Carmelo Bene senza respiro ? Certo, come voce il cui fiato mai aderisce all’ordine emotivo, al senso “poetico” – ma asincrona e fuori campo va azzerando le differenze fra pensiero organico e minerale – parola pura nel suo stroppiarsi in “ricetta farmaceutica di controindicazioni” o in musicale impromptu – collane di perle, accordi e dissonanze alla Keith Jarrett. Bene ‘italianizza’ così lo s-parlarsi addosso fisiologico, chimico, ideologico della totalità dei corpi, svuotando l’inconscio rivendicare un’anima inesistente (“Come se si potesse essere autori di qualcosa !”), in una ‘naturale’ sfigurazione della lingua – cortocircuiti verbal-fonici o imprevisti smottamenti fra un idioletto e l’altro – e giunge a una ‘alchemica’ nigredo o combustione in cui il tantra orientale si assimila alla nostra pornografia, appagamento senza desiderio.
Contro la “ruminazione, digestione, fonazione e flatulenza di ogni arte poetica”, è “il Cordelcorp al di là del desiderio”, e questa voce “non tua non mia”. Quasi le stesse parole di Kerouac (“Nulla è mai avvenuto”) più che nihilismo declinano qui un neoartaudiano kamikaze culturale – eppure devono pure accadere versi come: “Niente ha fine se non fu”, “nel punto questo / il solo istante della vita”, “v’è inciso un al di là del dispiacere di che manca salute”. Vive la sanità soltanto dell’insania, un’eternità non dorata, ma in bianco e nero – che nei film è coloratissima apologia dei “cretini che vedono la Madonna e hanno ali improvvise” – l’impossibile nolontà mistica “d’essere il più gentile, il più cretino”. Trans-poesia ‘glocale’ più d’ogni altra forse destinata alla scomparsa, dicendo ciò che sempre più è, sarà, è stato – il mai avvenuto svanir dell’illusione.
NICOLA LICCIARDELLO (da Voci di trans-poesia dalle Americhe a Carmelo Bene, in “Italianistica”, Sao Paulo 2008
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