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DANZA IL DOLORE A KALAKSHETRA

8 marzo 2012

DUKKHA Danza il dolore. KALAKSHETRA (Madras) 26 febbraio 2012.

Kathak di Parwati Dutta. Musica, flauto e voci dolcissime, Parwati non è snella, ma è leggera, quasi vaporosa, quanto solida nelle posture, sfumata nei mudra del volto, implacabile nel sorriso. Dichiara ogni sequenza prima al microfono, dettando il ritmo: DA DA GA’, Taketiketun Tata, DA DA GA’, TakeTaketiketun… poi esegue, ruota levitando, tornando e finendo la sequenza al beat assoluto – l’unisono, o l’ottava del beat del tablista – guardando fisso, in trionfo, lo spettatore. Continui applausi a scena aperta. I ritmi si fanno sempre più rapidi, di mezzo tono, di un quarto di tono, di un 27esimo… oppure asincroni, ora li esegue coi crotali alle caviglie, poi vola, svolge e riavvolge, coglie e offre, allontana e accetta, crea e dissolve, scrive, ringrazia, prega, ottiene, offre… soffre infine nella descrizione a parole, ma preciso il Da Da Gà – senza sforzo continua a esser Detto e Danzato il ritmo assoluto. Chiude con un ultimo DA – DA, quasi lento, è un canto di dukkha, di dolore. La chairwoman informerà che 5 giorni fa è morto il padre di Parwati, e questo lei ha danzato. Offrendo intero il suo dolore nella danza disciplina, trasfigurando così, bruciando il suo karma. Ciò che commuove non è il sentimento per il padre perso, bensì il modo del suo superamento: la bellezza della forma, l’intensità dell’esecuzione, l’Invisibile, il sacro che in lei ha vibrato.  Come la sobrietà del congedo, con il premio simbolico (un libro e un piatto di frutta) ricevuto in commossa umiltà – il congedo di tutti, pubblico e artisti, in questi che non sono affatto “eventi” (come i nostri), ma puri atti di servizio, senz’ombra di mondanità o compiacimento (sponsors ignoti), pura celebrazione di chi ha ‘scritto’ nella storia dell’arte indiana. In occidente sarebbe inconcepibile, un Festival gratis ogni 4 anni (compleanno di Rukmini Devi il 29 febbraio), fosse Isadora Duncan o Pina Bausch: non solo abbiamo gli sponsors, cui non basta esserlo ma devono esibirlo, per una questione di potere – ma il pubblico deve pagare comunque, la finanza deve rifinanziarsi, e poi gratis vorrebe dire qualcosa che non ha valore.

La chairwoman prima, quindi io e pochi altri seguiamo Parwati per salutarla. “It was my duty to dance, a necessity”, ribadisce – “but so loving and purifing”, aggiungo. Talvolta organizzo serate di poesia e danza, le dico, se capita in Europa… Risponde che sì, viaggia, e mi dà il suo bigliettino.

 

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4 commenti leave one →
  1. Giuseppe Ferraboschi permalink
    9 marzo 2012 22:12

    Dall’Occidente.
    Il corpo smembrato di Dioniso si ricompone e risorge per mezzo del filo d’Arianna della scrittura.
    Grazie Nicola.
    E il corpo smembrato di Europa, che solo il denaro e la ferrovia ad alta velocità tengono a mala pena insieme?

    • 10 marzo 2012 11:30

      Forse, certo avveniva questo, la ‘scrittura’ del corpo, ma è così lontano, come tutta l’architettura greca, di cui abbiamo solo gli scheletri – mentre qui tutto è ancora vivo, ancora un po’…

  2. Lucia Guidorizzi permalink
    25 marzo 2012 13:54

    e che la danza sia questo lasciar fluire attraverso il movimento, il lasciar parlare i corpi sottili, il costruire castelli di sabbia,il potere di legare e sciogliere, di dissolversi nell’armonia, di raggiungere le profondità oscure con la grazia dei tuffatori di Delo.

    • 25 marzo 2012 23:05

      I don’t understand what you wrote.
      What I wrote is an approximative translation of the body-hand language in Dutta’s performance.

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